Intervistato dal quotidiano a tinte giallorosse, con una parte di intervista nell'edizione di ieri, l'allenatore della Primavera della Roma, Alberto De Rossi, ha attraversato i 25 anni della sua carriera nel settore giovanile romanista, commentando i giocatori allenati nel tempo e il suo percorso professionale nelle giovanili della società capitolina. Questo uno stralcio delle sue dichiarazioni:
Alberto, si ricorda la prima volta con la Roma?
«Benissimo, anche se sono passati quasi venticinque anni».
Allora la ricordi pure a noi.
«Estate 1993. Sarà stato il 24 o il 25 luglio. Io ero nella mia Ostia. Al mare. Stavo facendo il bagno. Mi dissero che era squillato il mio telefono».
Chi era?
«Bruno Conti».
E che le disse?
«Che un allenatore delle giovanili se ne era andato. Mi chiese se mi andava di sostituirlo. La mia risposta fu un sì entusiastico».
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Subito in panchina?
«Subito. Iniziai ad allenare i più piccoli, i Pulcini, la classe del 1984. Non mi andò male».
Cioè?
«In quell'annata c'erano ragazzini che poi hanno fatto strada: Aquilani, Ferronetti, Corvia, Mantioni, Stillo, Piva, Viscontini, Ricozzi, Servi. Un gruppo fantastico».
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Dopo?
«Ancora Giovanissimi Nazionali, classe 1985, arrivammo in finale, perdendo con il Torino. Pure qui un bel gruppo. C'erano anche Curci e Galloppa».
Altri due che sono arrivati nel calcio che conta.
«Curci era un buon portiere, è arrivato in prima squadra, poteva fare di più. Anche Galloppa è arrivato in serie A, poi è stato frenato dai troppi infortuni».
Dopo i Giovanissimi, c'è stato il salto negli Allievi.
«Un salto naturale. Ci sono rimasto quattro anni. Ho avuto notevoli soddisfazioni in campo, due finali e una semifinale, ma soprattutto riuscimmo a fare un grande lavoro con il biennio ‘86-‘87, gruppo che poi avrei ritrovato più avanti e che per la Roma è stato molto prolifico visto che parecchi di quei ragazzi sono poi arrivati nel calcio dei grandi».
E poi, finalmente, l'approdo alla Primavera.
«Stagione 2003-04 e in quella Primavera ritrovai i miei ragazzi del 1984 che ho avuto la fortuna di allenare in tutte e tre le categorie. Con loro ho condiviso momenti bellissimi, ho ricordi emozionanti ma purtroppo anche dolorosi come la prematura scomparsa a 29 anni di Andrea Servi».
L'anno successivo, 2004-05, fu subito scudetto.
«Era una squadra fortissima. Un biennio di grande qualità, c'erano Cerci - un fenomeno, che non ha reso per quello che poteva - Rosi, Marsili, Grillo, Simonetta, Greco, Virga. Prima delle finali, però, ci capitò qualche sfortuna».
Quali?
«Simonetta, che era bravissimo, si fece male e Cerci, che aveva esordito in A con Delneri, si infortunò con la prima squadra. Ci pensò Bruno Conti a sistemare le cose».
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La prima vittoria non si scorda mai.
«La ricordo con grande orgoglio, soprattutto perché giocavamo sotto età. In semifinale riuscimmo a battere la Juventus di Criscito, Marchisio e De Ceglie».
Andò bene anche l'anno dopo, no?
«Sì. Pure se perdemmo la finale scudetto e quella del torneo di Viareggio. Ma la mia soddisfazione è stata che di quella squadra esordirono in A tanti ragazzi».
Ovvero quello che deve essere l'obiettivo prioritario di un settore giovanile.
«Vero. Al di là delle vittorie che pure fanno piacere, la soddisfazione più grande è vedere i tuoi ragazzi fare il salto in prima squadra».
Ha sempre lavorato con Bruno Conti?
«Sì, almeno fino a un anno fa. Con lui abbiamo impostato il lavoro e raccolto i risultati».
Si ritiene un allenatore fortunato?
«La mia fortuna è stata quella di allenare in tutte le categorie. La mia è stata una crescita graduale, giusta, mirata, naturale. Quando sono arrivato in Primavera non ho sentito tanto la differenza, del resto ripresi il gruppo dell'84, il gruppo da cui ero partito. Ho insegnato e dato molto ai ragazzi, ma anche loro hanno dato tanto a me».
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Alberto De Rossi come vive il cambio di radici che vediamo nei settori giovanili? Ovvero, oggi ci sono quasi più stranieri che ragazzi italiani nei vivai.
«Non ne faccio una questione di quantità, ma di qualità. Perché se gli stranieri sono forti, fanno crescere anche la competitività dei nostri ragazzi. La Roma, comunque, l'anno scorso, nella finale di Supercoppa contro l'Inter, aveva in campo nove ragazzi romani più Tumminello siciliano ma cresciuto con noi, più Keba».
Com'è Tumminello?
«Fortissimo, ma per favore non diteglielo».
Ce la fa a farci una formazione con i migliori che ha cresciuto?
«Curci, Ferronetti, Romagnoli, Antei, Marchizza, Florenzi, Aquilani, Viviani, Pellegrini, Bertolacci, Politano, Caprari, Okaka, Cerci, Corvia, Ciciretti, Greco, Mazzitelli, Calabresi, Ricci, Rosi, Tumminello, Verde, Verre... No, sono troppi. Considerando pure quelli che si stanno formando adesso, penso a Soleri, Di Livio, Machin, Bordin, D'Urso, Luca Pellegrini che sta tornando da un infortunio. Ribadisco, sono troppi, non posso fare una formazione».
A proposito di Luca Pellegrini. Ha un procuratore importante come Raiola, un vantaggio o uno svantaggio?
«Diciamo che sono situazioni molto difficili».
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Tra i tanti che ha cresciuto, non c'è Daniele De Rossi.
«Mi sono sempre rifiutato di allenarlo, sia nelle giovanili che in prima squadra».
Già, in prima squadra. Vero che poteva fare il salto nei grandi?
«Ci sono state due occasioni in cui per farlo sarebbe stato sufficiente un mio sì. Risposi no».
Per Daniele?
«Per Daniele. E mi sembra una scelta naturale. Per un padre è spontaneo non creare un problema al figlio. Lo dico serenamente, da genitore normale, senza voler fare l'eroe».
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Ha avuto il rimpianto di non aver mai fatto il salto nel calcio dei grandi?
«Assolutamente no. Il mio è il lavoro più bello del mondo, almeno lo è per me. Sono fortunato e mi sento un privilegiato. In passato ho avuto diverse offerte da club di serie B, ma ho sempre scelto di lavorare con i giovani. E poi, parliamoci chiaro, io sono alla Roma, un grande club».
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Ci dà la sua definizione di un buon allenatore di giovanili?
«Certo non è quello che pensa a migliorare solo le prestazioni sportive dei suoi calciatori. Formare un ragazzo a quell'età, è un lavoro che richiede mille attenzioni non solo a livello tecnico o tattico. Alla Roma non ci limitiamo a formare solo il calciatore, ma vogliamo crescere uomini e professionisti».
In questo senso la Primavera è una tappa fondamentale.
«Sì. È l'ultimo step prima di entrare nel mondo dei professionisti. Ed è la fase più delicata perché in questi anni si definisce la personalità dei ragazzi. È in questo momento che bisogna trasmettergli la necessità di saper reagire, non buttarsi giù dopo una sconfitta, voltare pagina ripartendo dopo aver capito i propri errori».
Anche a livello giovanile è importante il lavoro dello staff?
«È fondamentale. Il mio è un lavoro di squadra. Per i ragazzi è importante riconoscere nello staff professionisti con cui si confrontano, un gruppo serio e compatto, soprattutto un gruppo su cui possono contare. Per noi non sono dei figli, ma la figura del Mister non è solo quella del tecnico ma anche di educatore. Bisogna saper insegnare ai ragazzi a essere adulti, a riconoscere certi valori e come comportarsi nella vita pure quando smetteranno di prendere a calci un pallone».
(Il Romanista - P. Torri)