«Chi non se la sente di reggere la pressione, si prenda un pezzo di terra e vada a coltivare patate». Ecco, il pensiero di Fonseca parte da qui, dalla sue parole che mostrano la consapevolezza maturata in questi cento giorni di lavoro di un ambiente bello e insieme complicato. Ma non certo peggiore di tanti altri. Fonseca ha subito conquistato un po’ tutti. «Perché non è solo un allenatore capace, ma anche una persona onesta e aperta. Caratteristiche che a volte sono difficili da trovare insieme», ha detto qualche giorno fa Dzeko. È un po’ il sunto di quello che pensano dentro lo spogliatoio romanista. L’approccio al calcio italiano era stato il solito, quello legato al suo Dna. Un calcio offensivo, con difesa alta, terzini quasi come fossero delle ali aggiunte e l’idea di «dominare le partite con una squadra coraggiosa». Già, il coraggio è proprio l’idea di base. Poi quel 3-3 iniziale in casa con il Genoa gli ha fatto capire che bisognava aggiustare qualcosa. «Sì, è un Fonseca italianizzato – ha detto prima dell’Atalanta – Questo calcio obbliga ad essere elastici e malleabili. Ogni partita ha una storia a sé, chi qui pensa di poter giocare in un modo solo commette un grave errore. Anche se i miei principi restano gli stessi: squadra propositiva che fa possesso palla e gioca nella metà campo avversaria». Così è nata l’idea anche della difesa a tre (proprio contro l’Atalanta), ma soprattutto la ricerca di un maggior equilibrio. Come? Soprattutto facendo spingere un solo terzino e tenendo bloccato l’altro. Anche se poi il d.s. Petrachi era stato chiaro a inizio settembre: «Fonseca deve portare avanti il proprio credo e la mentalità innovativa. Cambiando quella italiana di chiudersi e ripartire in contropiede. Deve insistere senza perplessità, con i risultati anche i calciatori si convinceranno di quel calcio».
(gasport)