“Ciao, so’ Claudio”: pressioni e affari, il metodo che vale il consenso

14/02/2015 alle 12:01.
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LA REPUBBLICA (F. S. INTORCIA) - «Ciao, so’ Claudio». Il metodo Lotito corre sul filo. Un pressing paziente, o asfissiante, da uomo politico consumato. Quando nell’ultima assemblea di Lega Pro è stato bocciato il bilancio, la nuova maggioranza pensava di aver segnato il rigore finale. Lotito invece non s’è arreso mica: mentre Macalli prendeva tempo, lui organizzava la controffensiva, meditava in un baleno un nuovo programma con cui riconquistare consensi, chiamava a uno a uno presidenti, direttori generali, segretari, chiunque potesse essere decisivo per cambiare, di nuovo, il voto del club. Forte di una leadership riconosciutagli ovunque, dalla Federcalcio alle Leghe. Raccontano che è quasi impossibile sfuggirgli, e che se qualcuno prova a schivarlo scrutando il numero sul display, lui ha già un altro telefonino da cui riprovare. Pino Iodice, l’uomo che ha provato a incastrarlo con la telefonata registrata e pubblicata ieri da Repubblica, promette «nuovi elementi, ho altre telefonate: non sono pazzo, se ho denunciato tutto è perché avevo nelle mani delle prove, auspico l’intervento di personaggi autorevoli, questa è una macchia sul calcio italiano. Non ho fini personali, non devo occupare un posto in Lega né un ruolo alla Lazio o alla Salernitana, l’unico mio scopo è pulire il calcio italiano, Lotito dev’essere messo ai margini. C’è qualche sms di qualche suo collaboratore che mi offre qualcosa per fermare la mia marcia». Nel frattempo però è stato liquidato come uno che porta jella, e mai colpa più grave può esserci in questo calcio dove si perdona tutto, fuorché la scalogna. «Mi rivolgerò a un avvocato, Lotito ha detto delle cose false su di me. Tanto per essere precisi, la Pro Patria non è mai fallita, il Taranto è fallito quattro anni dopo che me n’ero andato, la Nocerina è stata solo esclusa dal campionato, quando già non c’ero più».

Nel piccolo mondo antico che si chiamava serie C, urlano tutti, non sente nessuno. Sbraita Massimo Londrosi, che gestisce il Pavia tutto cinese. Si lamenta il presidente del Grosseto, Camilli: «Lotito mi ha cercato non una ma dieci volte, mi dà fastidio perché decido con la mia testa, non mi lascio tirare dalla giacca». I presidenti di provincia insomma sognano il ribaltone in vista della prossima assemblea, lunedì a Firenze: servirà a fare la conta reale della maggioranza. Ma intanto, ai piani alti del calcio, c’è solo una reazione contro lo strapotere di Lotito e Macalli: il silenzio. Forse, un silenzio-assenso.

Raccontano che in Figc, ieri, Tavecchio abbia seguito con comprensibile frenesia l’evoluzione del caso. Fin qui, ha usato sempre la massima cautela. A chi gli chiedeva di intervenire sul pasticcio Lega Pro, spiegava: «Ho le mani legate dal regolamento e non posso fare un passo sbagliato. Se spingessi per la decadenza di Macalli e questa fosse inficiata da un Tar? E poi per la decadenza servono 12 voti, e nessuno è intenzionato a votarla, da quanto so». Stavolta, però, non poteva tacere né temporeggiare: l’affaire era un assist ghiotto alla minoranza, che avrebbe colto al balzo sia le parole di Lotito sia un eventuale, imbarazzante silenzio di Tavecchio. E invece, dopo la censura del presidente Figc, non ha gridato nessuno. Non ha detto nulla Andrea Agnelli, che nel pomeriggio era seduto con Lotito al tavolo della Fondazione per la mutualità. Ha parlato Pallotta, l’altro grande oppositore. Ma s’è concentrato su un dettaglio, i meriti che Lotito si era dato sull’accordo con le tv: «È curioso come nello stesso momento in cui la Premier League annuncia un incremento sostanziale dei diritti tv, un individuo stia provando a prendersi i meriti del recente accordo sui diritti televisivi italiani. In realtà certi passi avanti sono stati fatti grazie un club come il nostro e ad altri che hannospinto per una nuova visione. Siamo inoltre convinti che molti benefici non si siano realizzati nella Lega per colpa di questo stesso individuo». Non s’è indignato, né ha avuto un sussulto orgoglioso, Maurizio Beretta: etichettato, sostanzialmente, come uno che conta zero, non s’è mica offeso, anzi. Si è fatto scivolare le parole come pioggia sull’impermeabile, all’arrivo in Lega cercava l’amico Claudio, e ha liquidato tutto come una faccenda di colore: «Credo che il suo fosse un modo un po’ spiccio per definire una realtà di fatto. Come previsto dal nostro statuto, il presidente è il garante e il rappresentante verso l’esterno, ma il potere decisionale è di assoluta pertinenza dell’assemblea ».

Insomma, non è il caso di drammatizzare. Hanno reagito con misura Malagò e Delrio. Nessuno ha pensato alle dimissioni: da chiedere o da presentare. Pezzi di politica sono giunti in suo soccorso. Un soccorso trasversale, da centrodestra e centrosinistra. C’è chi parla di «apporto fondamentale di Lotito alle riforme» (Lara Comi, Fi), chi di «tentativo di screditare » e di «gioco al massacro» (Stefano Pedica, Pd, il partito di Delrio).

E allora Lotito, dopo il monologo in mattinata con cui confermava il suo pensiero espresso nella telefonata, a sera ha potuto anche rilanciare, con una nota, trasformando una possibile fonte d’imbarazzo in un’occasione strepitosa per glorificare il suo programma. «Se non si strumentalizzano le mie parole, il mio dire appare logico e collegato a una politica di riforme più volte politicizzata. Il mio richiamo agli effetti negativi dell’accesso delle squadre provinciali alla serie A è stato da me indicato come rischio di una possibile riduzione dei diritti televisivi, in conseguenza della riduzione degli utenti, e non certo come desiderio di impedire ai club minori di arrivare a competere con i club maggiori». Nel silenzio generale, forse, persino i suoi feroci oppositori condividono. Altro che dimissioni. Magari ha guadagnato pure qualche altro voto in vista di lunedì, il giorno della verità. Il redde rationem, direbbe lui.