GASPORT - Queste le parole dell'ex attaccante della Roma Rudi Voeller, rilasciate in un'intervista al quotidiano sportivo:
«Sono da qualche annetto nel calcio, ho visto di tutto ma quella sera è stata una partita pazzesca, uno spettacolo per i tifosi. E’ più felice chi segna per ultimo, fosse finita 2-2 da 2-0 per noi sarebbe stata più contenta la Roma che però ha dimostrato di saper giocare bene, di essere la migliore in Italia e di avere tutte le possibilità di vincere il campionato».
Sarà una partita diversa?
«Non è detto che ci sia più prudenza, le dinamiche non sono calcolabili, può finire 0-0 o 1-0 o 0-1, noi quattro giorni dopo abbiamo fatto la stessa gara contro lo Stoccarda, però vincendo 4-3. Se non perdiamo all’Olimpico avremo noi un piccolo vantaggio per la qualificazione, ma sarà un match difficile».
Lei ha vissuto la Roma e la città da calciatore, allenatore e da marito di una romana, tre prospettive diverse per tastare l’ambiente. Quando arrivò era molto diverso da oggi?
«Roma non cambia mai, era così anche nel 1987, quasi trent’anni fa: vive con il grande cuore dei tifosi. Ho avuto esperienze splendide: arrivavo dal Nord della Germania, mi sono trovato nel Sud dell’Italia. A Brema ero amato dalla gente, certo, ma quando sono sbarcato all’aeroporto c’erano centinaia di persone, poi anche a Trigoria. Era tutta un’altra situazione rispetto a quella tedesca».
Tanto affetto la spaventò?
«No, ma la prima stagione fu poco felice, soffrivo per gli infortuni, faticavo, ma alla gente interessa poco se hai i dolori: devi fare gol, è stato difficile. Allora sono andato dal presidente Dino Viola a chiedere di partire se non era contento del rendimento. Avevo buone offerte in Bundesliga, uscivo da un discreto Europeo, potevo tornare in Germania. Gli dissi: “Sono tedesco e vorrei sempre dare il massimo, vi capisco se non siete soddisfatti e non voglio togliere il posto a un altro straniero”. Viola mi disse: “No, lei rimane, ho sempre creduto nelle sue capacità”. Restai volentieri, mi imposi, il gruppo era bello».
In che senso?
«Eravamo uniti, il legame rimane ancora oggi, soprattutto con Tempestilli e Conti. Ricordo una cena per festeggiare i miei 30 anni, in un ristorante sulla Colombo, con tutta la squadra. Arrivò a sorpresa anche Renato Zero e cominciò a cantare».
Le ricordano spesso il gol decisivo nel derby del marzo 1990. E’ il più bello?
«Forse quello era molto importante per i tifosi. Ma io ricordo come se fosse oggi quello segnato alla Fiorentina 4-0 nella prima giornata dopo il Mondiale, che avevo vinto proprio all’Olimpico: lancio di Desideri, girata al volo da oltre dieci metri, palla sull’incrocio opposto. Che roba».
Cosa ha imparato a Roma?
«Il significato romano della parola derby. A Brema c’era rivalità con l’Amburgo, se perdevi il derby del Nord però si sentiva la delusione e niente altro. A Roma dopo un k.o. con gol di Di Canio ci allenammo con la polizia fuori da Trigoria».
La seconda Roma, quella da allenatore. Disse: vengo per aiutare degli amici. Perché lasciò dopo neanche un mese?
«Avevo lasciato la nazionale in giugno, volevo fermarmi e rilassarmi. Solo due squadre mi avrebbero fatto cambiare idea, Leverkusen e Roma. A fine agosto successe il dramma di Prandelli, le dimissioni per stare accanto alla moglie malata. Mi chiamò Totti, mi chiamò Baldini, dovevo decidere in fretta, non potevo portare un assistente tedesco come Skibbe, ero poco preparato sul calcio italiano, diverso da 17 anni prima. Se è andata così è solo colpa mia. Ero la persona sbagliata nel posto e nel momento sbagliato. Pensavano arrivasse il tedesco che fa il duro, ma non ne sono capace».
Però mandò a casa Cassano prima di una gara di Champions, finita con la sospensione perché fu colpito l’arbitro Frisk.
«Sì, non avrei potuto farlo ogni volta. E poi Antonio si scusò, mi chiese se era la causa delle mie dimissioni. No, non ho smesso per lui, ma perché quella Roma aveva bisogno di un allenatore italiano. Era il 2004-05, poi si salvò alla fine con Bruno Conti».
Adesso riesce a godersi la città da persona comune in visita ai parenti?
«A Roma mi sento sempre bene. Mia moglie Sabrina adesso è contenta di abitare a Düsseldorf e parla il tedesco, però abbiamo i parenti in Italia, io ora vengo di meno, ma quando ci torno è sempre bello. Non ho un posto del cuore, ma in tutto il centro mi giro e dico: ah, qui è magnifico. Ricordo un paio di ristoranti preferiti, ma vado dappertutto, tanto come capita spesso a noi uomini, sono le donne a decidere. Tre dei miei cinque figli, compresa Greta, figlia di Sabrina ma che io ho adottato, sono nati a Roma».
Sportivi?
«Il più grande, Marco, gioca a basket in serie B tedesca, mi diverto quando vado a vederlo. Un paio invece sono in giro per il mondo, Greta è in Australia con il fidanzato che ha conosciuto a Mykonos. E io le dico: “Ma non potevi conoscere un romano così venivamo più spesso nella nostra città?” Avrei visto con più frequenza i miei amici. Tempestilli, Bruno Conti e anche Sabatini. Avrei potuto raccontare l’invidia che provo per il vostro campionato».
E cosa può invidiare alla Serie A un dirigente di un club della Bundesliga, un torneo fra i più ricchi e seguiti al mondo?
«Vi invidio perché non avete fra i piedi il Bayern Monaco. E la Roma può vincere lo scudetto».