GASPORT (A. CATAPANO) - «Figlio mio, ti prego, stai tranquillo. Non vogliono farti del male...». Antonella fatica a trattenere le lacrime. Ciro ha appena chiesto: «Dov’è mia madre?». È seduta alla sua sinistra. Può incrociarne lo sguardo, sentirne il respiro, ma ora non la riconosce. «Ciro, sono qui...». Lo accarezza, gli tiene la mano. Cerca di calmarlo. L’effetto dei sedativi va e viene senza una logica. Ora Ciro ci guarda. I nostri occhi si incontrano per una frazione di secondo. E tanto basta perché ricominci a dimenarsi. Gira la testa dall’altra parte, agita le braccia, fugge il nostro sguardo. Come se volesse scappare via. Come se il nostro volto estraneo gli ricordasse il suo aggressore. Ora gli occhi di Ciro sono pieni di paura. Si rivolge alla madre: «Perché mi vogliono arrestare?». Torna a incrociare il nostro sguardo: «Guardate come mi hanno ridotto...».
Incubi Da dodici giorni il mondo di Ciro è una stanza due metri per tre del centro di Rianimazione del Policlinico Gemelli. Entriamo da una porta rossa. Aspettiamo in un piccolo ingresso. Sulla parete celeste è appeso un ritratto di Giovanni Paolo II. Sorride. Si apre una porta più piccola, si gira a destra, ancora un paio di passi. Eccoci. La stanza di Ciro è la seconda a sinistra, numero 8. Le visite sono ammesse in due fasce orarie, dalle 13 e dalle 18. I genitori hanno una certa libertà, gli altri cari possono entrare due alla volta ma non devono trattenersi troppo. Ciro non va stressato. Ad ogni sussulto emotivo può corrispondere uno sbalzo dei valori. Le condizioni migliorano molto lentamente, da due giorni non è più intubato, ha cominciato a respirare con l’aiuto di una mascherina, e ieri i medici hanno provato a sospendergli la dialisi. Riuscire a fare pipì sarà un altro piccolo passo verso la normalità. Ma la prognosi resta riservata. È un cammino lungo, faticoso, molto doloroso. E dalle prospettive ancora incertissime. Lui non lo sa, Antonella invece se ne rende conto benissimo. «Ciro non muove le gambe. Non le sente proprio». Male al cuore. Dolore. Rabbia. Un ragazzone di 29 anni pieno di vita e muscoli ridotto a pelle e ossa. Lo alimentano con un sondino. Ha ematomi dappertutto e il petto mostra un groviglio di fili che per giorni lo hanno tenuto attaccato alla vita e ora che il peggio, se Dio vuole, è passato, mantengono i suoi valori stabili. L’anima no. È in panne, da giorni, e chissà come reagirà quando torneranno in superficie tutti i ricordi. «Le sue giornate ora sono piene di incubi — ci racconta Antonella —. E quando affiorano, lui cerca di difendersi. Ogni tanto sembra vivere stati di allucinazione, i medici hanno detto che è normale. Come se vedesse nemici dappertutto. Forse è per questo che dice tante parolacce, anche a noi».
Un sorriso Poi, d’improvviso, un momento di lucidità, anche se disperato. Di nuovo rivolto alla madre: «Io non ho fatto niente, io non c’entro. Mamma, tu mi credi?». Antonella lo rassicura. Riprende ad accarezzarlo. In questi casi calmarlo è l’unica cosa da fare. Dall’altra parte del letto, c’è Angela Tibullo del Centro Dike, un pool di professionisti che offre consulenze cliniche e forensi. Angela è una criminologa ed esperta in comunicazione non verbale. La famiglia Esposito si è affidata a lei in questo momento tanto delicato, per la sopravvivenza e la guarigione di Ciro e lo sviluppo delle indagini. Quando Ciro si agita, Angela sa cosa dirgli. Con un guizzo: «Guarda la cravatta del dottore, è bianca e azzurra...». E Ciro, come se quei due colori avessero improvvisamente diradato la scena, illuminato le zone d’ombra: «Voglio la maglia del Napoli...». Anche Simona, la fidanzata, sorride. Come tante mogli, compagne, amiche, sa di aver perso la sua partita con il calcio. Certo, dopo quello che è successo... «Ne parleremo, ma se lo conosco un poco non riuscirò a trattenerlo a casa. In trasferta no, basta. E a Roma, di sicuro, non ci torneremo. Nemmeno per prendere un aereo».
Tante domande Roma, i romanisti. Quelli che domenica hanno scritto «forza Daniele» e «napoletano infame». Quelli che il 3 maggio erano con Gastone. Chi? Quanti? Perché? Domande che continuano ad assillare Giovanni. «Vorrei che almeno mi spiegassero la logica di quello che è accaduto. Perché non ci dicono nulla? Perché non escono fuori tutti i nomi? C’è qualcuno di importante da coprire? E poi perché è passato tanto tempo prima che arrivasse l’ambulanza? Come starebbe mio figlio se i soccorsi fossero stati tempestivi?». Anche Ciro prima o poi vorrà sapere. Ieri mattina ha chiesto a Giovanni: «Papà, tu dove mi hai trovato?». E con la mano — ci hanno raccontato — ha indicato il punto del torace in cui è entrata la pallottola artigianale sparata dalla Benelli 7.65 con matricola abrasa. Una di quelle pallottole incise sulla punta, in modo da esplodere all’interno del corpo, per fare più danni. Giovanni scuote la testa. «Ditemi voi come dovrei definire chi ha ridotto così questo povero ragazzo. Un ultrà? Un fascista? Un delinquente? No, per me Daniele De Santis e i suoi compagni sono stati dei terroristi. Gli hanno teso un’imboscata. Ciro e i suoi amici camminavano dall’altra parte della strada, quello li ha richiamati, insultandoli, loro si sono avvicinati e da quel maledetto vivaio ne sono spuntati tanti altri, coperti dai caschi integrali. Se non è stato un agguato, come devo chiamarlo?». Infine, una preghiera: «Aiutateci a scoprire la verità. Non dimenticatevi di Ciro Esposito». Ora Ciro dorme. Sembra sereno.