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IL TEMPO (G. GIUBILO) . Roma come la Danimarca, ereditati da un antico maniero tutti i dubbi angosciosi e tutte le irrequietezze che tormentavano il pallido principe. Di qualsiasi cosa si parli, in chiave romanista, il «sì, però» è lespressione più frequente. Non ricordo nulla di simile quando nella Capitale erano approdati gioiosi (e te credo!) Adriano e Simplicio, ma allora cera la gestione virtuosa alla quale tutto andava perdonato, stadi fantasma compresi. La Roma americana ha messo al suo attivo, grazie al lavoro di Walter Sabatini, gli arrivi di Lamela, di Josè Angel, di Heinze, di Bojan, di Stekelenburg
Mancano, per ammissione del tecnico, ancora tre o quattro pedine per un organico ambizioso. Altrettanto ispirate le operazioni in uscita: Doni e Julio Sergio forse non facevano, in due, un portiere affidabile, Riise dopo la botta in testa era il suo gemello scarso, Menez non aveva dato segni di risveglio nelle stagioni romane. Qualche rimpianto per Mexes, un parametro zero scandaloso, non attribuibile alla nuova proprietà. E magari per Vucinic, non fa mai piacere la partenza di un campione che però, per uninfelice congiunzione astrale tra il suo umore e quello dei tifosi, laddio alla maglia lo aveva virtualmente annunciato. Luis Enrique si è guadagnato stima e simpatie, merita di essere sorretto in un lavoro graduale ma intellettualmente da assecondare, non è in dubbio che si vada realizzando quanto Spalletti aveva inutilmente invocato, aria nuova nellorganico, una volta esercitata la bonifica in società.
Lo spagnolo si è espresso ieri negli stessi termini di un professore della dialettica come Josè Mourinho: «Io non sono Harry Potter», lasciamo da parte le magie e affidiamoci al lavoro, meritandoci magari quel soffio di ottimismo che per il momento stenta a decollare. Non ha aggiunto, il tecnico giallorosso: «Io non sono un pirla». Di questo, tutti avevano già preso felicemente atto.