CORSPORT (G. D'UBALDO) - Per la Roma è stato tutto. Uno dei protagonisti dello scudetto vinto nel 1982-83 con lingegner Dino Viola, Nils Liedholm in panchina, un gruppo di grandi campioni e uomini in campo; il campione del mondo; lo scopritore di talenti; l'allenatore che prese la squadra dopo le dimissioni di Gigi Del
Bruno Conti, come ci si sente a 57 anni?
«Molto bene, sono in forma, in questi giorni sono a Cagliari e mi godo i miei nipotini. Sono felice».
Campione del mondo, dItalia, bandiera della Roma, per i tifosi è addirittura il sindaco ideale. Proviamo a tracciare un bilancio?
«Gli anni cominciano ad essere tanti. Ho realizzato ciò che avevo sognato, quando cominciai a giocare, a baseball e a calcio. Mi sono preso belle soddisfazioni. Mi sono divertito e spero di aver fatto divertire».
Oggi come vive?
«Gli anni non mi pesano. Faccio un lavoro che mi piace. Sono il responsabile del settore giovanile, che mi continua a dare grandi soddisfazioni. In quasi venti anni ho ottenuto risultati importanti».
Anche Piscitella, che ha già esordito in serie A, è una sua scoperta?
«Certo. Quando i nuovi dirigenti sono arrivati, mi hanno fatto i complimenti. Lo scorso anno abbiamo vinto il titolo italiano con tutti ragazzi cresciuti nel vivaio, tranne Dieme e Mladen. Questanno si sono aggiunti Nego, Tallo, Lopez e Ferrante. Piscitella lo abbiamo scoperto in uno dei tanti provini a Napoli, da quando ha 15 anni vive nel nostro pensionato. Lo volevano anche lInter e il Milan. Nel calcio da soli non si può fare niente, devo riconoscere il grandissimo lavoro che svolgono i nostri osservatori. Con le difficiltà economiche che avevamo siamo riusciti sempre a prendere i ragazzi di talento grazie alla qualità dei rapporti. I dirigenti degli altri club ci fanno i complimenti. In questi 18 anni il vivaio ha tirato fuori tanti ragazzi. Lultimo arrivato in prima squadra è Ricci. Sono due gemelli, ci furono segnalati dal papà di Roberto Muzzi, che cura il settore giovanile del Morena. Cominciai nel 93, sono sempre andato in giro per i campi dei dilettanti, i rapporti umani sono stati più utili dei soldi».
Per sei anni è stato il direttore tecnico della prima squadra. Le manca oggi il calcio dei grandi?
«No, ho dato tutto alla Roma. Lho fatto per mio padre, che mi ha trasmesso la grande passione. Quando ero giovanissimo fece fatica ad accettare che andassi al Genoa. Nel 2005, in un momento molto delicato, dopo una sconfitta a Cagliari, non riuscii a dire di no a Rosella Sensi e feci lallenatore. Poi per lanno successivo con Pradè prendemmo la decisione di affidarci a Spalletti. Mi sono tolto grandi soddisfazioni anche in questo ruolo. Abbiamo vinto Coppe Italia, una Supercoppa, sfiorato due scudetti. Unimpresa, se si pensa alle difficoltà societarie».
In questi anni cè stato il rimpianto per non essere riusciti a prendere un giocatore?
«Più di uno. Siamo stati vicini a Drogba. E ad Etoo, che è stato anche a casa di Pradè. Per Mutu avevamo chiuso con la Fiorentina, che poi ci ripensò. Avevamo grandi rapporti e spesso riuscivamo a far fronte alle difficoltà economiche».
Bruno, sono passati 30 anni dal Mondiale vinto in Spagna. Cosa le è rimasto dentro?
«Ero allapice della mia carriera, un coronamento importante. Io, Graziani, Antognoni e Collovati eravamo i pochi estranei al blocco Juve, ma ci facevamo rispettare. Avevamo di fronte squadre con grandi campioni. Ma dopo il primo turno abbiamo fatto un grande Mondiale. La più grande soddisfazione della mia carriera professionale? Non dimentico lo scudetto e quello che rappresenta a Roma. Una gioia immensa. Grazie al Mondiale ho portato il nome della Roma in tutto il mondo».
Da calciatore la sua carriera poteva avere unaltra piega?
«Quando dovevo firmare un contratto con la Roma sono stato molto vicino al Napoli. Ogni volta che ci affrontavamo, io e Maradona da capitani ci scambiavamo il gagliardetto e lui mi ripeteva sempre che mi aspettava a Napoli. Quello era un grande Napoli, ma non me la sono sentita di lasciare la Roma. Anche per rispetto nei confronti di mio padre. Ma fui vicinissimo, poi Viola mi mandò una persona a far firmare il contratto allaeroporto prima di partire con la Nazionale per il Messico».
Si sente completamente ripagato dal rapporto con la Roma?
«In pieno. Da calciatore devi dimostrare la tua bravura sul campo, ma anche da dirigente contano i fatti. Devono essere gli altri a giudicare il mio operato. Negli anni passati non avevamo un budget per il vivaio. E i risultati sono sempre arrivati. Mi fa piacere che i nuovi dirigenti abbiano apprezzato il mio lavoro e abbiano dato la loro disponibilità per sostenerci. Abbiamo tre campi nuovi per il settore giovanile. Fenucci ci è venuto incontro. E' stata creata una struttura importante. Anche Sabatini segue il nostro lavoro».
Lei è sempre rimasto legato a Nettuno, non si è mai spostato. Ci racconti perchè.
«Il rapporto con la gente del mio paese è straordinario. Per il mio addio al calcio c'erano ottantamila persone all'Olimpico, da Nettuno avevano organizzato decine di pullman. In occasione della partita contro la Polonia al Mondiale esposero uno striscione, Per il mondo sei Bruno Conti, per Nettuno sei Marazico . Sono sempre rimasto legato alle mie radici, mio padre Andrea mi ha trasmesso i valori della famiglia, che io a mia volta ho trasmesso ai miei figli. Due ragazzi fantastici. Anche loro si sono sposati due donne di Nettuno. Mio padre faceva il muratore, si svegliava alla quattro del mattino e tornava a casa alle sette di sera. Eravamo sette figli e non ci ha mai fatto mancare niente. Si spaccava la schiena per noi e tra me e i miei fratelli non ha mai fatto differenze, anche quando ero diventato Brunoconti, tutto attaccato, come mi chiamavano i tifosi».
Andrea e Daniele, i suoi figli, fanno i calciatori, ma non si sono affermati nella Roma. Le dispiace?
«Quando non facevo ancora parte della prima squadra, il pensiero era quello di vederli un giorno in maglia giallorossa. Poi hanno fatto scelte diverse. Andrea ha fatto più gavetta. Ha girato mezza Italia prima di approdare al Bellinzona. Daniele ha dimostrato il suo valore in serie A. A Cagliari sta bene, ma quando Spalletti mi chiese di portarlo alla Roma è stato lui a dire di no. "Fino a quando ci sei tu alla Roma non me la sento. Preferisco restare a Cagliari". Anche in quella occasione ha dimostrato di essere un uomo vero».
Il suo rapporto con i tifosi.
«Ora è meno diretto. Ma da parte mia non è cambiato niente. Nel calcio c'è chi dimentica, ma non può essere cancellato quello che ho fatto per la Roma. Quando venivano a contestare a Trigoria io e Totti ci abbiamo messo sempre la faccia. Se qualcuno ha dimenticato, io no. Non dimentico il giorno del mio addio al calcio, la festa scudetto, non dimentico nulla. Ma capisco che nel calcio che cambia così in fretta a volte qualcuno può dimenticare. Per esempio ci si è dimenticati di quello che ha fatto la famiglia Sensi. Io sono grato a Rosella. Quando mi chiese di guidare la prima squadra mi disse che avrebbe rivisto il trattamento economico. Gli risposi che non era il caso di parlare di soldi. Quei mesi furono terribili, non dormivo la notte. I tic che mi porto dietro da una vita aumentarono in modo spaventoso. Dopo una sconfitta a Parma mi ritrovai nello spogliatoio a piangere. Ho avuto paura. Qualche settimana dopo la vittoria di Bergamo ci tolse dai guai, grazie a un gol di Cassano. Ci abbracciammo piangendo, con Pradè, Rosella Sensi».
Come sono stati i rapporti con i calciatori?
«Con alcuni di loro ho mantenuto amicizia. Perrotta, Cassetti, fino a quando c'era Pizarro, per non parlare di Totti, passano spesso a trovarmi. Da dirigente della prima squadra quando c'era qualche problema cercavo di risolverlo. Ma se c'era da incazzarsi lo facevo. Ai calciatori non gliel'ho mai date tutte vinte. Quando c'era da metterci la faccia l'ho fatto, come quando Doni e Panucci stavano per darsele di santa ragione. Sono contento di come abbiamo gestito il gruppo in quegli anni con Pradè. Se non avessimo fatto le cose per bene non sarebbero arrivati quei risultati, il record di vittorie con Spalletti e tutto il resto. Ma non è stato facile, credetemi».
Com'è stato il suo rapporto con Cassano?
«Antonio l'ho sentito per fargli gli auguri quando è stato male, mesi fa. Ha il suo carattere, ma quando lo prendevo da parte mi rispettava e mi stava ad ascoltare».
Il mondo del calcio è di nuovo scosso dallo scandalo delle scommesse.
«Una bruttissima storia. Quello che sta accadendo non è sport. Spero che questo fenomeno venga debellato definitivamente».
Il suo futuro lo vede ancora nella Roma?
«Penso al presente che mi dà soddisfazioni. Penso al rapporto con la gente. Non mi aspetto chissà che cosa. Chi comanda nella società valuterà il lavoro svolto negli anni. Io sono disponibile a continuare a fare quello che ho sempre fatto. Nella mia vita mi sono conquistato tutto da solo. Non sono mai andato alle cene dei tifosi, non ho mai cercato i giornalisti. A me piace stare a casa. Per me parlano i fatti. C'è tanta gente che mi vuole bene. E la sera dormo tranquillo».
C'è un nuovo Bruno Conti che si affaccia nel mondo del calcio. Ce lo racconta?
«Ho cinque nipoti stupendi che mi fanno uscire di testa. Bruno è il figlio di Daniele. Per la nostra famiglia è Brunetto. Quando nacque, in clinica, Daniele mi disse che gli aveva messo il nome mio. Pensavo a uno scherzo. Ha nove anni, gioca negli Esordienti del Cagliari. E' mancino anche lui, il destro lo usa solo per camminare come il nonno. Ha anche i miei stessi tic. E qualche finta, il colpo di tacco. Gli piace giocare dietro le punte, ma si muove per tutto il campo e ha una bella botta. Quando vado a Cagliari lo vado a vedere agli allenamenti, mi metto in un angoletto senza farmi riconoscere. E' tifoso della Roma e del Cagliari, ma quando si affrontano è tutto per il padre. Il fratello Manuel ha sette anni e gioca anche lui. E' un martello, mena come Daniele. Anche lui promette bene»