LA REPUBBLICA (A. CAROTENUTO) - I ritiri d’estate fra i boschi sono come le fragole con la panna a Wimbledon. Rassicurano. Provano a convincerci che il mondo intorno sia lo stesso, uguale a quello che abbiamo sempre conosciuto. È l’ultimo rito del calcio classico rimasto in vita nel calcio industriale. Ma sta smettendo di essere necessario. Sopravvive per lo stesso motivo da cui poteva essere ucciso. I soldi. Non c’è più una sola squadra di professionisti che trovi fuori del suo habitat quotidiano condizioni di lavoro migliori. Se una notte fresca in collina può essere riprodotta in sede, in un qualunque albergo, per non dire in casa propria, con l’aria condizionata; se una tournée all’estero frutta più di un paio di amichevoli contro i taglialegna; se gli allenamenti aperti ai tifosi sono più un fastidio che una gioia; perché i ritiri dovrebbero avere ancora una ragione per esistere?
L’equilibrio è fragile. Dentro un sistema post romantico in veloce mutazione, i ritiri sono stati finora annessi perché hanno imparato a portare denaro. Non sono stati più una spesa ma fonte di introiti per le squadre-brand che muovono le masse. Quella che oggi chiamano fan base. Una società di calcio contemporanea non vive di soli tifosi. Ha bisogno di clienti. Finché il turismo calcistico dà ossigeno al merchandising dei club almeno quanto la montagna ai globuli rossi dei giocatori, la scelta di andare in ritiro rimane congruente. Le comunità montane ospitano questo antico circo e lo finanziano con soldi pubblici perché a loro volta mettono a bilancio un ritorno. La Val d’Aosta cominciò a farlo intorno alla metà degli Anni 90, quando per la prima volta convinse la Juventus a spostarsi. Due miliardi di lire, nell’estate del ’98, furono l’incentivo stanziato per spingere Inter, Parma e Sampdoria a lavorare nella regione. Il Napoli è da sette anni ospite a Dimaro. Ma la Roma che cancella la sua permanenza a Pinzolo accende una luce sul fenomeno e forse anticipa il futuro. La Fiorentina che aveva considerato di far saltare Moena per volare negli Usa di Commisso alla International Champions Cup, ha salvato l’impegno spaccando la rosa a metà. In Trentino Alto Adige, la regione che più spende per attrarre il turismo calcistico, dove l’indotto 2017 è stato calcolato in 13 milioni di euro, sono comprensibilmente in ansia. Un tifoso-cliente spende in media 120 euro al giorno per seguire la propria squadra. Se una squadra si spinge altrove, quei soldi seguiranno la scia. L’aspetto tecnico del lavoro estivo? Non esiste. Già sul finire degli Anni 80, uno tra i campioni del giornalismo sportivo, Gian Paolo Ormezzano, trovava che il ritiro fosse «probabilmente dal punto di vista scientifico una farsa colossale, dal punto di vista meramente sportivo una bufala fra le massime». Il Milan di Sacchi aveva dimostrato che si poteva vincere il campionato senza passare nemmeno un giorno in montagna tra metà luglio e inizio agosto. L’estate successiva il Torino salutò la retorica della ricerca dell’isolamento nel silenzio delle montagne e portò le sue tende granata in mezzo alla mondanità di Saint Vincent. La genesi del fenomeno non ha una tracciabilità accertata.
Quel che sappiamo è che nel 1927, a metà del mese di settembre, il presidente della Lazio Maraini trasferì la squadra a Sora per una settimana. Cinque anni dopo l’allenatore inglese Garbutt disponeva che il suo Napoli lasciasse la città, troppo calda in agosto, per andare ad allenarsi a Sant’Agata sui due Golfi, dormendo alla pensione Jaccarino. Due estati più tardi il Milan è censito sul Benaco, l’Inter nel paesello di Asnigo. A metà Anni 60 Rocco portava i suoi al fresco di Varese. La Ternana di Viciani sperimentava l’altura al Terminillo. Nei primi 4-5 giorni il pallone non veniva toccato. Oggi la preparazione atletica si fa giorno per giorno, non esistono più i carichi estivi e i richiami a Natale. Le ripetute sono il piano B in caso di bassa intensità nei SSG, gli small sides games, i giochi che col pallone ai piedi allenano la forza e la resistenza. Davvero serve ancora la corsa nei boschi? L’incanto letterario dei ritiri stava forse altrove. In una certa aria di grottesca avventura da cui erano circondati. Avevano ruoli fissi come nella commedia dell’arte. Il giocatore che scappa dalla finestra di notte per correre dalla ragazza del paese accanto. L’allenatore che si fa trovare alle cinque del mattino nella hall per pizzicarlo. Il giornalista a caccia di ricevute per le note spese. Poteva capitare che a Castel del Piano un panettiere (Corrado Corsini) dovesse marcare Maradona in amichevole. Giovanni Arpino nel 1970 scriveva: «Privo di scienza, lo sport non migliora, privo d’un pizzico di magia (vera o falsa non importa) lo spettacolo rinuncia a un quid misterioso che costituisce parte del suo fascino».
Addio al mito del ritiro: il calcio va in tournée per i turisti-tifosi
06/07/2019 alle 15:50.