IL TEMPO (E. MENGHI) - C’è stato un periodo in cui a Roma si abusava della definizione «progetto», appesa fuori Trigoria quando allenava un Luis Enrique ancora poco noto ai più, e si chiedeva a gran voce di avere pazienza. Sei stagioni dopo il ritornello sembra lo stesso: per vedere la mano di Di Francesco serve tempo, il cantiere è aperto e i lavori in corso. Ma campionato e Champions sono cominciati e i giallorossi sono in ritardo su diversi aspetti, gioco e condizione fisica su tutti. «Auguro ai tifosi di essere felici anche il maggio prossimo», l’amaro messaggio di fine anno di De Rossi, convinto che «uno come Spalletti è difficile da trovare». Innegabile il dispiacere della squadra nel veder andar via chi l’aveva riportata in alto. Ricominciare da capo quando il passato è impresso nella mente come un mantra è un’operazione che richiede totale fiducia, tempo e lavoro. Dopo tre mesi, però, c’è chi si sente scomodo in un ruolo, chi troppo solo, Pallotta si dice non soddisfatto nonostante il punto d’oro conquistato contro l’Atletico Madrid e i leader dello spogliatoio chiedono pazienza perché «dobbiamo migliorare, ma ci manca poco». Eppure la soluzione non sembra esattamente dietro l’angolo. Un cambio di rotta potrebbe arrivare qualora Di Francesco decidesse di varare una nuova Roma. Di non essere un integralista l’ha dimostrato apportando modifiche a gara in corso, ricorrendo anche alla difesa a tre (o per meglio dire a cinque) quando la squadra stava soffocando sotto gli attacchi spagnoli. Un provvedimento temporaneo e necessario, intelligente a dirla tutta. «Una scelta – ha spiegato il tecnico a fine match – dettata dal momento, ma si può pensare di ripeterla in futuro viste le caratteristiche della rosa». La forza di un bravo allenatore sta nel far giocare al meglio i calciatori che ha, non nel disporli secondo un credo prestabilito. I dubbi sul 4-3-3 sono sorti subito, la Roma non ha gli esterni giusti per assecondare il modulo di Di Francesco e l’unico rimedio alla possibile crisi di rigetto è un cambio in corsa. Il dopo-Spalletti sta facendo soffrire Strootman, che in un centrocampo a tre non si esprime al massimo, e soprattutto Nainggolan, autore nella passata stagione di 14 gol da trequartista, ora tornato a fare il mediano a malincuore.
Ha la tigna di sempre, ma la distanza dalla porta rende meno efficace lui e la squadra di conseguenza. Dzeko ha lamentato una solitudine comprensibile dopo l’uno contro tutti nella notte di Champions, poi a mente fredda ha rettificato: «Mi dispiace che le mie parole siano state interpretate come una critica a Di Francesco, i suoi insegnamenti sono giusti e impegnandoci al massimo otterremo i risultati che vogliamo». Un gol su azione (proprio di Edin) in tre partite la dice lunga però sulla produzione offensiva della Roma. Perotti sembra aver ritrovato l’ispirazione, ma continua a non pungere sotto porta, Defrel è sacrificato sulla fascia e la conseguenza è un attacco spuntato. L’inserimento di Schick potrebbe attutire il senso di abbandono di Dzeko dopo l’addio di Salah e il distacco da Nainggolan, a patto che Di Francesco riesca a farli convivere. Gli infortuni hanno sicuramente rallentato il processo di apprendimento e sono un’attenuante importante, così come le sviste arbitrali, che Var o non Var hanno inciso sui risultati. Alibi ce ne sono anche per il ritardo nella condizione fisica, un problema palesato dallo stesso tecnico, che in ritiro a Pinzolo ha potuto lavorare praticamente solo con i Primavera, poi negli Usa si è partiti forte con le amichevoli per cui non si è potuto fare un lavoro specifico con i nazionali. Fatto sta che i Colchoneros andavano al doppio della velocità e la batteria della maggior parte dei giallorossi si esaurisce dopo un’ora. Senza i miracoli di Alisson e i pali non sarebbe finita a reti bianche: 12 i tiri degli spagnoli da dentro l’area, troppe le concessioni di una difesa da collaudare. L’augurio di De Rossi oggi suona come un triste presagio, ma la via della felicità resta aperta, basta solo prendere la strada giusta.