REPUBBLICA.IT (M. CUPPINI) - Ha lasciato la Roma senza rimpianti. Stanco e svuotato dal dualismo con Totti e dalle polemiche con un ambiente esasperante e – talvolta – esasperato. Luciano Spalletti non si è mai guardato indietro e non l’ha fatto nemmeno stavolta, quando ha deciso di salire su un treno per Milano salutando la Capitale a cui ormai sentiva di non poter dare altro. Ma il destino a volte ha fretta di presentare il conto.
Spalletti sabato sera tornerà da avversario nello stesso stadio che lo ha osannato e poi scaricato a suon di fischi alla fine di un rapporto che aveva logorato un po’ tutti. Lui in primis. E’ nella gestione Totti che si è aperta la frattura tra Spalletti e il mondo Roma. E’ nel rapporto sempre più complesso e meno comprensibile con la stampa che ha cominciato a far intravedere i primi segnali di insofferenza. E’ lì che è maturata la decisione di andare. Nel tentativo impossibile di normalizzare l'”anormale“, di rendere Totti uno dei tanti, senza chiedersi perché Francesco, nella sua lunga carriera, uno dei tanti non lo è mai stato. Nel tentativo estremo di gestire una sindrome di accerchiamento da cui ormai sembrava non riuscire più a venire a galla e che lo ha portato a sfoghi poco eleganti verso la stampa romana (“siete degli sfigati e se ho detto che vedevo ombre l’ho fatto per prendere per il culo voi“). E’ in tutto questo che Spalletti e la Roma si sono consumati. A vicenda. Non prima di essersi tolti piccole e grandi soddisfazioni, ma anche di aver toccato il fondo. Perché a grandi slanci hanno anche fatto da contraltare ferite profonde. Dalle dolci notti di Lione e Madrid in cui la Roma elimina Olympique e Real dalla Champions, allo storico e umiliante 7-1 contro il Manchester United (poi bissato da Garcia col Bayern nell’ottobre 2014).
Quando il primo Spalletti arriva a Roma nel 2005 ha il compito di tirare fuori la squadra dalle ceneri. Una squadra vittima di scelte sbagliate da parte della società e incapace di uscire dal tunnel della mediocrità di 3 ottavi posti consecutivi. Suo il merito di aver saputo adattare le caratteristiche della rosa al 4-2-3-1 (poi divenuto marchio di fabbrica), quello di aver inventato Totti “falso nueve” in una gara a Genova contro la Samp facendogli riscoprire una seconda giovinezza (nel 2007 con 26 reti il Capitano vince la Scarpa d’Oro), e Perrotta nel ruolo di incursore, dando riconoscibilità al gioco della Roma nel mondo. Un gioco fatto di tagli, verticalizzazioni e imprevedibilità, seppur la qualità di alcuni interpreti non fosse esattamente la stessa dei campioni interisti, che di lì a poco, sarebbero saliti sul tetto d’Europa. Eppure, è proprio contro l’Inter di Mancini che Spalletti si è preso le maggiori soddisfazioni in giallorosso: due Coppe Italia (’06/’07 – ’07-’08) e una Supercoppa italiana (2007) che poi sono anche gli ultimi trofei alzati a Trigoria.
Ma se per molti anche i numeri hanno una poetica, gli argomenti non mancano di certo al tecnico toscano. Durante la sua esperienza a Roma infatti, ha collezionato 425 punti in 212 partite (2 in media a partita): meglio di colossi come Liedholm e Capello ma anche del triennio targato Rudi Garcia. A livello statistico Spalletti è il miglior tecnico della storia giallorossa, eppure la sua seconda esperienza, nonostante un terzo e un secondo posto, lascia un senso di incompiuto che difficilmente gli 87 punti in campionato (record assoluto per la Roma), riescono a colmare. Sì, perché Luciano era tornato per portare a termine un lavoro ma se ne è andato troppo in fretta in preda ad inquietudine e insofferenza “ripiegando” sull’avversario dei suoi anni migliori. Sabato tornerà per sfidare la sua ex. Stavolta non c’è nessun trofeo in palio. Ma tanta voglia di dimostrare cosa poteva essere e non è stato. Quello sì.