La mossa dell’urbanista anticipa la cacciata: “Non meritano nulla”

15/02/2017 alle 14:29.
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LA REPUBBLICA (G. VITALE) - Era un sospetto che covava da tempo. Un tarlo che già in passato l’aveva spinto sull’orlo delle dimissioni, sempre però rispedite al mittente dalla sindaca Raggi, che del paladino anti-palazzinari aveva bisogno come il pane per dare un volto e un nome alla battaglia grillina contro i poteri forti, evocati a ogni piè sospinto per ribaltare le accuse di immobilismo piovute sulla giunta romana fin dagli esordi. Ma quando ha realizzato di essere stato «utilizzato come una foglia di fico»: lui, professore di chiara fama, autore di libri di grande successo, tra i più profondi conoscitori dell’urbanistica cittadina. Quando s’è reso conto di aver lavorato invano per quasi 220 giorni; che «la più imponente speculazione immobiliare del momento in Europa» sarebbe comunque andata in porto, facendo strame dei suoi principi e dei valori portati avanti per tutta una vita, ecco allora Paolo Berdini ha detto basta. «Questi non meritano nulla», s’è sfogato con un amico. E ha spedito in simultanea, in Campidoglio e alle agenzie di stampa, una mail contenente l’addio irrevocabile. Partita, per sommo della beffa, da uno degli account dell’assessorato. Il suo ultimo atto ufficiale.

Forse il pretesto che l’urbanista cercava per liberarsi di un peso che non sopportava più, specie dopo le confidenze registrate da un giornalista della Stampa sulla sindaca «impreparata strutturalmente», circondata da «una corte dei miracoli», legata all’ex capo segreteria («Questi erano amanti»). O forse l’estremo tentativo per riabilitarsi, restando fedele a se stesso. A quella cocciuta coerenza sempre sbandierata come un marchio di fabbrica.

«Se vi volete piegare ai costruttori, se intendete autorizzare questo vergognoso eco-mostro, che mi avete chiamato a fare? Avete sbagliato indirizzo», soleva ripetere ai consiglieri e agli assessori grillini che più volte lo avevano invitato a riflettere, ad ammorbidirsi un po’, a cercare un compromesso sulla costruzione dello stadio giallorosso, ormai diventato la sua ossessione. Per uno come lui, ingegnere di sinistra in lotta contro cemento selvaggio, avrebbe significato scendere a patti col diavolo. «E il diavolo va sconfitto, non baciato».

Una lettera d’addio preparata con cura, già all’indomani dell’incontro riparatore con Virginia Raggi e il vice Luca Bergamo, durante il quale Berdini provò a scusarsi, a ripetere di essere stato frainteso, forse persino manipolato, salvo rinchiudersi in un silenzio pieno di dolore dopo la pubblicazione di un primo audio, e poi di un secondo, che lo hanno inchiodato. Assistendo nel frattempo attonito alla «manovra ordita in Campidoglio per screditarmi»; alla due diligence promossa sui suoi atti da assessore «per scoprire chissà quali magagne, ma io ho sempre lavorato nell’interesse della città»; alla girandola di nomi sondati per sostituirlo. Mentre tutti i suoi amici lo esortavano: «Ma non vedi come ti trattano? Non è meglio mollare?».

E lui sempre lì a ribadire: «Ho sbagliato, mi hanno chiesto di restare ed almeno questo glielo devo, tanto il mio destino è segnato». Lo aveva già detto a Repubblica: «Mi cacceranno sullo stadio, che io voglio fare in un modo e il M5S in un altro». Ieri Berdini ha posto fine all’agonia. Con un pesante j’accuse che, col senno di poi, avrebbe dovuto fare prima. Magari a settembre, quando in perfetta solitudine si scagliò contro l’allora potentissimo braccio destro di Raggi, artefice a suo dire della «trappola» ai danni del capo di gabinetto Carla Raineri e dell’assessore al Bilancio Minenna, finendo per unire le sue dimissioni alle loro: «Se il signor Marra è stato l’ispiratore di quest’azione scellerata, deve essere messo nelle condizioni di non nuocere, deve fare un passo indietro», tuonò a Radio Anch’io. «La classe dirigente non si improvvisa, ci sono problemi giganteschi». Già allora pensò di ritirarsi: «Avevo previsto tutto», sospira oggi. Pentito. Ma finalmente sollevato.