GASPORT (A. CATAPANO) - Sale in zucca e scarpe accanto al cuore. La sintesi di una carriera, probabilmente di tutta un’esistenza. Un calciatore intelligente, un uomo generoso. Così lo hanno conosciuto, e apprezzato, a Roma. Logica la conseguenza: lui è rimasto nel cuore dei tifosi, la città gli è rimasta nel cuore. Il motivo per cui i rimpianti non hanno mai trovato spazio nei ricordi di Eusebio Di Francesco. Pescarese diventato uomo a Piacenza e campione a Roma.
TRE VIAGGI Quel che sarebbe stato della sua carriera senza il dramma di Nova Gorica, importa poco ormai. Sono passati quindici anni, un tempo sufficiente a convincersi che la vita ha preso la piega che doveva prendere, che evidentemente era scritto da qualche parte. Accadde in un afoso pomeriggio di fine estate, il 14 settembre del 2000, su un campo ai confini del calcio, quando il primo turno della coppa Uefa regalava scampagnate tra ragazzi e ragazze dell’Est. A Nova Gorica, tredicimila abitanti nella Slovenia occidentale, si interruppe il volo di Di Francesco: tre stagioni vissute ad alta velocità (non a caso lo soprannominarono «Turbo»), prima con Zeman poi con Capello, e improvvisamente si ritrovò con le ali tarpate, proprio mentre stava nascendo una grande Roma. Rottura del crociato anteriore del ginocchio destro, per sei mesi fu solo spettatore della cavalcata scudetto. Rientrò 171 giorni dopo, il 4 marzo, ma di lì alla fine Capello gli concesse solo cinque apparizioni. Campione d’Italia, comunque. E campione di cuore. Due mesi dopo l’infortunio, in piena riabilitazione, si imbarcò su un aereo militare con Damiano Tommasi e volò in Kosovo, a Stublla, a inaugurare un centro sportivo costruito con le multe pagate dai giocatori della Roma. E tre giorni dopo aver conquistato il tricolore, sempre con l’amico Damiano (e una delegazione di calciatori italiani), portò un pezzo di scudetto (e una parte dei premi) a Sarajevo, per inaugurare altri campi. «L’essere presente qui ti fa vedere le cose in un altro modo, ti cambia, ti apre», raccontò emozionato.
TRE NOMI Come fai a non amare uno così? Un figlioccio dei Sensi, che gli spalancarono le porte del grande calcio. Un pupillo di Zeman, con cui conquistò la Nazionale. E un amico di Totti, con cui gli riuscirono giocate straordinarie: i tre nomi che hanno segnato la carriera, non solo romanista, di Di Francesco. Che in questi anni ha ricordato: «Zeman mi ha insegnato la cultura del lavoro. Sensi mi ha cambiato la vita. Totti... beh, Francesco è la Roma, se penso alla squadra penso a lui». Magari oggi tornerà a dimostrarlo, riprendendo per mano la squadra, ammesso che l’amico Eusebio glielo consenta.
OSSO DURO Come nelle migliori tradizioni calcistiche (e romaniste), infatti, Di Francesco da avversario non ha mai fatto sconti alla Roma. Da allenatore, l’ha affrontata tre volte all’Olimpico e l’ha sempre messa in difficoltà. Con il Lecce nel 2011 provò a beffarla (finì 2-1 per la squadra di Luis Enrique), con il Sassuolo ci è riuscito. Due volte su due. Bloccata sul pareggio. Nel 2013 riagguantò i giallorossi al 4’ di recupero con Berardi, un anno fa si fece riagguantare il doppio vantaggio di Zaza. Oggi torna all’Olimpico, senza complessi di inferiorità e con gli stessi punti in classifica. «La Roma ha le sue certezze, noi le nostre. Ce la giochiamo, non partiamo remissivi — assicura —. Siamo usciti imbattuti per due volte di fila, vorremmo ripeterci. Anzi, speriamo di aver imparato la lezione dell’anno scorso, magari non ci facciamo più riprendere...». Senza cuore... (si scherza).