LA REPUBBLICA (E. SISTI) - All’ottavo pareggio in nove partite, il più deprimente di tutti, frutto di una Roma senza nerbo, disossata e al tempo stesso senza testa né muscoli, con un tridente talmente pallido da far venire voglia di scendere in campo e distribuire panini, con un centrocampo sempre più specializzato nell’arte dello scomparire e con un reparto arretrato in perenne allarme di fronte al peggior attacco della serie A, dopo mesi di strenua e apparentemente convinta difesa del gruppo, Garcia va all’attacco della squadra: «Questo 0-0 in nulla somiglia ai pareggi precedenti. Nel primo tempo la squadra è stata scarsa e il gioco orribile, avremmo potuto giocare ore senza segnare. È stato un pareggio brutto e inquietante».
Ecco l’aggettivo che mancava al dizionario di Trigoria: inquietante. Usiamolo: inquietanti sono anche le scelte del tecnico che per la seconda volta consecutiva manda in campo almeno un paio di giocatori “fermi”. Eppure è strano: la Roma è così da mesi, impossibile che Garcia non se ne sia accorto. Da mesi la squadra che non c’è più balbetta calcio come un imputato balbetterebbe la propria innocenza davanti a un giudice che neppure lo guarda in faccia, sapendo di non essere creduto. L’autorevolezza del tecnico, calato nella parte dell’uomo che non sorride più, si è affievolita, le speranze del gruppo di restare compatto ridotte a un lumicino fioco, i nervi a pezzi. La Roma non fa più paura a nessuno. Emblematico che per sostituire Mattiello Maran abbia preferito abbassare Schelotto piuttosto che inserire un altro difensore. Se la Roma è questa, avrà pensato il tecnico del Chievo, proviamo a vincere.
Da quanto tempo la Roma grigia, ripetitiva, impotente, canta la stessa canzone stonata? Da tanto. E allora perché solo adesso arriva l’intemerata di Rudi? Garcia sostiene che la Roma sia una famiglia. Se fosse vero, allora vuol dire che genitori e figli di questa sventurata famiglia non si parlano mai, tra fratelli si detestano, i nonni sono diventati un peso e a cena ognuno fa come gli pare. Al suo interno, alimentandosi forzatamente con promesse di bellezza e fugaci apparizioni presidenziali, stadi immaginari, acquisti frettolosi e partenze evitabili (Benatia?), la famiglia Roma ha prodotto soltanto lacerazioni e scollamenti. La rabbia di Garcia è la rabbia di chi non vede più la squadra che generò invidia e ammirazione: «Non la riconosco più». Davanti, i giocatori esibiscono un calcio da cortile. Dietro, sente mancare l’appoggio della dirigenza, una volta incondizionato: «Domani dobbiamo dirci la verità (forse si sono visti già stanotte, ndr)».
Quindi a Trigoria circolavano bugie? C’è aria di ritiro punitivo per sanare dissidi fra i giocatori, fra giocatori e preparatori, per recuperare qualcuno che ha smesso di seguire la via maestra, che si sta tirando indietro? Altre ipotesi. Garcia sta provando a riaccendere la squadra prima della Fiorentina in Coppa, giocando la carta del muso duro, l’ultima si presume. O magari sta preparando il terreno per un addio a giugno. Nel precipizio estetico e culturale della Roma tutto è possibile: «Ieri non ho visto né gioco né rabbia. Nessuno avrebbe potuto rilevare un altro». Le meraviglie del 4-3-3 sono reversibili: è un modulo creato per chi corre, si scambia di posto, vede il compagno, gli suggerisce la giocata o lo aiuta nello scarico. Diventa una prigione se i giocatori fanno l’esatto contrario. In ogni caso, la Roma si consoli pure: nel campionato italiano ammantato di mediocrità si può arrivare secondi (o terzi) rimanendo impresentabili. I due termini non sono più ufficialmente in contraddizione.