IL MESSAGGERO (A. ANGELONI) - E' sempre un brutto segno quando a uscire dal campo con la palma del migliore è il portiere. Morgan De Sanctis non c'era abituato, sembra passata un'èra geologica quando gli avversari non tiravano mai in porta, quando le partite la Roma le vinceva con il carattere e con la forza mentale. Un'èra geologica, appunto. Quella Roma è sparita da tempo, ora è un pulcino indifeso. Una squadra che vive sul grande paradosso: non perde mai (da Napoli) e non vince mai (due sole vittorie nel 2015). Perché? De Sanctis risposte certe non ne ha. Anche questo è un brutto segno. «Ce lo chiediamo pure noi. Ogni volta ci imponiamo di fare di più, ma alla fine ciò che facciamo in campo non basta. Non viene fuori la prestazione come la prepariamo e la vorremmo fare. I risultati sono frutto solo di quello che si fa in partita», l'analisi di Morgan alla fine del triste zero a zero del Bentegodi.
Ma tutto questo è riconducibile a un problema di gambe o testa? Il portiere non cerca un colpevole, forse perché uno solo non ce n'è. «Non serve a niente fare analisi provando a trovare capri espiatori. Facciamo troppe chiacchiere. Bisogna prenderci le responsabilità: l'allenatore lo fa, la società anche e i giocatori non devono essere da meno», sottolinea. Intanto da dietro arrivano di corsa. «Non bisogna illudere le persone: abbiamo smesso di sperare che succeda qualcosa avanti a noi ormai da qualche partita. E' necessario dare di più, ma il problema è generale. Non riusciamo a fare la prestazione, indipendentemente dall'avversario, e questo è frustrante. Sono tante le cose che non vanno e che dobbiamo migliorare, ma alla fine ci riusciremo perché manca ancora tanto e questa squadra può e vuole fare di più». La solita e doverosa ricerca del futuro migliore.