LA REPUBBLICA (A. CAROTENUTO) - Tanto non serve voltare lo sguardo e far finta di niente. Se devi uscire, devi uscire. «Chi, io?». Esatto, tu. Proprio tu che poco fa avevi fatto gol, l’uomo che in pubblico non viene chiamato mai con il suo cognome, ma per il suo ruolo, con la “a” un poco chiusa, stretta fino quasi a diventare una “o”. Il Capitòno. Questi francesi. Però esci. Numero rosso: il 10. Ci sono momenti in cui i calciatori smettono di calcolare. Tornano istinto puro. Una delusione non si può mascherare. Le sostituzioni, per esempio. Quando a Verona Totti s’accorge che la cosa lo riguarda, non commenta con la mano sulla bocca come fanno tutti, e primo fra tutti Cassano. Buffon e Pirlo, quarantott’ore prima, sono usciti dal campo dopo il 2 a 1 all’Atalanta con il colletto della maglia sollevato fin sopra le labbra. Quello che si sono detti è rimasto là, imbrigliato dentro le fibre di acrilico. Totti invece va senza rete di protezione. «Aspetta, però...». Lui che tace spesso, quando parla si vede e si sente. «Chi, io?» mormora al minuto 66 della sua ventesima partita stagionale interrotta in anticipo da Garcia, l’ennesima che in questo fine inverno la Roma chiude con un inconsolabile assalto alla vittoria. L’assalto, Totti deve guardarlo dalla panchina.
Toccava pure al suo amico Del Piero con Capello, giusto dieci anni fa. Eppure in questa squadra finora senza centravanti, soltanto Ljajic ha segnato più di lui. La lettura di un labiale è un frammento di sincerità rubata. Racconta un’autenticità che più tardi sarà negata. A Usa ‘94, Italia-Norvegia, Baggio se ne andò dal campo dopo il rosso a Pagliuca maledicendo Sacchi, che lo sostituiva per far posto a Marchegiani: «Ma questo è matto». Le tv di Berlusconi, quattro anni prima, in pieno duello scudetto Napoli-Milan, avevano cercato sulle labbra del massaggiatore Carmando verità e retroscena della monetina caduta sul capo di Alemão. «Sembra che lo facciano apposta», borbottò Mazzarri sul conto della sua Inter nel bel mezzo di un disastro. «Ma è scemo?», s’è chiesto De Rossi dopo l’esultanza con cui Destro si faceva espellere. Non è stato mai possibile ricostruire l’insulto che Ljajic dedicò a Delio Rossi fino a scatenarne la reazione in panchina, così come nessuno riuscì a leggere le parole di Balbo a Zeman, tranne il popolo, convinto che l’offesa fosse «laziale». Mentre ci fu poco da decifrare ai Mondiali del ‘74, quando Valcareggi tolse Chinaglia e il centravanti gli suggerì dove andare, accompagnando il consiglio con una mano.
Anche contro il Torino, il 9 novembre, Totti non l’aveva presa bene. Sul 3 a 0, Garcia gli aveva sottratto gli ultimi venti minuti, dentro i quali il Capitòno sperava di infilare un gol. Si sottrasse all’abbraccio, aveva un’urgenza sola, voltare le spalle a tutti e tornare nello spogliatoio. Eppure, parve un malumore innocuo, un’insofferenza dalla vita breve. I classici cinque minuti. Non era diverso Totti, era diversa la Roma. Aveva tutta una vita davanti. Aveva Mosca da giocare, e dopo ancora il City. Aveva un orizzonte. La Juve era là, a tre punti, e Garcia pronunziava ancora le tre sillabe (scudetto) che adesso Roma gli rimprovera e gli scaraventa addosso. Perfino Walter Sabatini oggi attribuisce quell’uscita «a un momento di buonumore». Si rideva allora, e si rideva ancora sette partite fa: il pomeriggio del selfie. Guarda invece ora. Totti neppure s’accorge che lascia il Bentegodi tenendosi stretta al braccio la fascia da capitano. In certi gesti involontari si nascondono metafore di verità. Perciò la Roma diventa in quell’istante una squadra senza più riferimenti, incredula del suo sbando. In sette partite, nel passaggio dal selfie al labiale, Totti si consegna platealmente alla perdita della leggerezza. Non sono soltanto le foto a fissare i nostri ricordi. Anche un labiale, come certi diamanti, è per sempre.