GASPORT (A. ELEFANTE) - Da padrone di casa a ospite di riguardo all’Olimpico. Da San Pietroburgo a Roma, dalla «tre giorni» Fifa con full immersion nelle conferenze tecniche post Mondiale ad un volo oggi all’ora di pranzo, per non perdersi Roma-Cska Mosca. Fabio Capello fa il commissario tecnico della Russia a tempo pienissimo: «In questo periodo, con le partite di qualificazione e dunque i ritiri, sto a Mosca almeno venti giorni al mese, anche di più». Lo fa alla faccia dell’incredibile vicenda che lo vede terminale di una latente guerra interna alla federazione russa e dunque senza stipendio da mesi. «I soldi sono l’ultima cosa che mi preoccupa», ha ripetuto ancora una volta ieri Capello. È più preoccupato di portare la Russia all’Europeo, anche per questo stasera ha scelto di seguire dal vivo Roma-Cska: «Voglio vedere i due centrali difensivi, Ignashevich e Vasili Berezutski. E poi Akinfeev, naturalmente: non so se avranno una serata così tranquilla ».
Dunque si aspetta un assedio della Roma? «Non è detto: la prima partita di un girone è sempre quella della pressione psicologica e ne ha di più chi gioca in casa. La Roma è forte e per questo per me è importante verificare l’approccio dei miei giocatori a una partita potenzialmente difficile, tanto più per chi solo da un anno è abituato a giocare la Champions League. Però fossi in Garcia non mi fiderei granché di questo Cska».
Se non lo sa lei... «Lo dico tanto più dopo il mercato: Eremenko e Natcho sono due rinforzi importanti in sé, che in più completano bene la squadra. Il Cska è un’avversaria organizzata, compatta, ma non così scontata da affrontare, perché ha una variabile importante: quei due là davanti, Musa e Doumbia, sono imprevedibili e soprattutto velocissimi».
Però anche la Roma là davanti non scherza, no? «La Roma ha grande qualità e un allenatore che ha fatto un buonissimo lavoro, perché senza un gran lavoro non si arriva vicino allo scudetto già al primo anno. E sa cosa mi piace di lui? Sentirlo dire, pur dopo una vittoria come quella di Empoli, che di certe cose non era così contento: è segno di determinazione».
Girone troppo duro, per la Roma? «Probabilmente il più duro di tutti. Ho visto dal vivo il Manchester City con l’Arsenal, sabato scorso: una partita fantastica per l’intensità straordinaria di tutte due le squadre, e chi pensava a un City appagato dal campionato vinto si metta pure il cuore in pace. A parte il talento offensivo, quando si ha gente come Yaya Touré, Kompany, Zabaleta, Fernandinho, si ha gente che non ci sta a perdere. Mai».
Per dire che il Bayern è fortissimo non c’è bisogno di vederlo dal vivo. «Ancora più forte dell’anno scorso. Perché Benatia è quello che gli serviva dietro e perché credo che Xabi Alonso fosse esattamente il tipo di giocatore che voleva Guardiola per far girare la squadra come dice lui. E così Lahm può tornare a fare il laterale, il mestiere che gli riesce meglio».
Più facile che la Roma passi il girone o che il Bayern vinca la Champions? «La Roma deve fare un percorso tipo quello del Napoli l’anno scorso: forse stavolta 12 punti potranno bastare. Il Bayern è il mio favorito per la Champions League assieme al Chelsea: un gradino sopra a Real e Barcellona».
Perché? «Perché sono due squadre “fatte”, già pronte. Invece Ancelotti e Luis Enrique dopo questa estate hanno un po’ più di lavoro da fare per trovare o ritrovare la quadratura del gruppo».
Più facile che faccia strada la Roma o la Juve? «La Juventus ha un girone più facile e più esperienza. Ed è più competitiva dell’anno scorso perché è riuscita a tenersi i suoi uomini mercato ».
Ormai è un’eccezione per le squadra italiane. «È uno dei problemi del nostro calcio. Noi siamo sempre stati bravi, soprattutto nei momenti difficili, a trovare buoni giocatori: il fatto è che una volta i top player venivano in Italia, mentre ora non vengono e quelli che abbiamo ce li portano via. Quando è così si abbassa il livello di qualità del campionato, perché si abbassa anche quello dei giocatori: a stare in campo con quelli bravi si impara. Io andavo a vedere Suarez, per imparare: se quelli bravi vanno via, da chi si impara?».
Altri problemi? «Almeno due. Anzitutto gli stadi, sono obsoleti: fatti (male) per il Mondiale del 1990, e quelli sono rimasti. La Juve, per avere il suo, ha dovuto disfare il vecchio per poi rifarselo. Basta che le faccia un esempio, per capire. Qui in Russia ci sono due stadi già pronti per il Mondiale 2018: bel segnale, ma c’è di più. A Kazan sono passati dai 12-14 mila spettatori a partita del vecchio ai 30-35 mila del nuovo stadio; a Mosca, nel nuovo impianto dello Spartak, sold out da 45 mila per l’inaugurazione e alla prima di campionato erano in 40 mila. Se uno stadio è bello, comodo e funziona, la gente ci va».
E l’altro problema? «Nelle nostre partite non si sa più cosa sia la continuità del gioco: c’è il vizio di cadere per terra al primo contrasto, di simulare, di buttar fuori subito la palla, mentre qui a San Pietroburgo è emerso che al Mondiale la tendenza degli arbitri è stata quella di far giocare il più possibile. Una domanda, senza polemica: ma perché l’agonismo che all’estero viene premiato, da noi è considerato a priori una scorrettezza? Ma vi pare che così vengano fuori partite più belle?».