Stadi, limiti alla chiusura. La sanzione scatterà solo per il settore

09/10/2013 alle 10:05.

GASPORT (V. PICCIONI) - Cori e squalifiche ci stanno cucendo addosso la maglia nera nella lotta contro il razzismo. E allora, che fare di fronte all’emergenza curve? La domanda attraversa società calcistiche e istituzioni, ma sulla risposta il pallone si spacca.

Apertura sì, dietrofront no Ieri Abete ha letto lo sfogo di Galliani, supportato dalla Lega, contro l’ormai famigerata norma della discriminazione «territoriale », gli odiosi cori contro i napoletani. Al Coni, il presidente della Figc si è confrontato con Malagò. Poi ha cominciato il percorso nella doppia direzione: la norma non si discute, la sua traduzione sì. «Una riflessione sulla modalità applicativa in relazione alle situazioni che intervengono è opportuna ed è un fatto naturale ma il quadro normativo è delineato e non è frutto di una decisione autonoma della Figc, ma di un sistema di contrasto recepito a livello internazionale». Cioè: è la Uefa che ha deciso. Un’apertura, calibrata però. Abete ha infatti risposto così a Galliani: la «discriminazione territoriale» non è un’invenzione, ha una sua storia, una sua giurisprudenza, e le norme calcistiche, articoli 11 e 18 delle Norme Federali, la contengono da tempo.

Territoriale o no Tutto ruota infatti intorno all’articolo 14 del Codice di Disciplina dell’Uefa. Per Galliani, il fatto che siano citate soltanto quattro specie di discriminazione – pelle, razza, religione, origine etnica – toglie di mezzo la «discriminazione territoriale». Il cui confine, per esempio, con altri tipi di offese, è estremamente labile. L’insulto che ha provocato l’ennesima punizione della Lazio in campo internazionale, quello «slavo, puzzi di merda» pronunciato contro i tifosi del Legia Varsavia, fa parte della «discriminazione per origini etniche», ma è vicinissimo all’insulto «territoriale» esplicitamente citato nelle norme italiane.

In tribunale Ma la Federcalcio risponde che in realtà nel testo dell’articolo si fa riferimento a qualsiasi formadi discriminazione, «incluse» le quattro ragioni citate. E’ naturale quindi, questo è il ragionamento, che il codice sportivo italiano non abbia cancellato la categoria di «discriminazione territoriale» che rientra in quel «qualsiasi». Che in questi anni ha funzionato persino fuori dall’ordinamento sportivo. Lo scorso 29 marzo, per esempio, il tribunale di Varese ha condannato a una multa un uomo che in una lite per un parcheggio aveva apostrofato così le persone che aveva davanti: «Solo dei terroni possono parcheggiare in quel modo, siete una categoria di m…». La «fonte» è stata l’articolo 594 del Codice Penale e la legge 133/93.

Curva sì, stadio no Ma a via Allegri non sfugge che una norma di questa importanza, con questo impatto, ha bisogno di essere applicata con equilibrio. Prima di tutto, evitare due pesi e due misure. Non è possibile affidare alla soggettività del singolo arbitro o assistente o collaboratore della Procura federale una decisione così importante. Ci devono essere criteri il più possibile oggettivi. Insomma, il coro incriminato dovrà essere evidente e acclarato. Si lavora anche a una correzione dell’apparato sanzionatorio, in particolare sul versante della recidività. Esaurita la vicenda del pronunciamento della Corte di Giustizia Federale sul ricorso del Milan, si procederà. L’obiettivo è quello di arrivare a un cambiamento della seconda sanzione: non più la chiusura di tutti gli spalti, ma nuove punizioni, a fronte di ogni recidiva, del settore da cui sono partiti i cori. Questa svolta parte anche dalle reazioni «da stadio». Se in queste ore si sta cementando una clamorosa protesta dei gruppi più oltranzisti delle curve, in occasione delle varie squalifiche di questo inizio di stagione sulla rete sono stati molti gli interventi di chi chiede di farla finita con un tifo fatto di insulti e di provocazioni.

Società, fate di più Il problema, però, resta. Il calcio italiano sembra arrivato a questo esame assolutamente impreparato. Dimenticando di far parte di un mondo straglobalizzato e magari dando tutta la colpa alla Uefa «cattiva» e alle sue norme troppo severe. Soltanto di recente, i legami societàgruppi ultras cementati dalla logica del ricatto sono stati in discussione. Paradossalmente, è stato proprio Lotito a fare coraggiosamente da apripista per poi ritrovarsi oggi in testa alla polemica anti Platini. L’atteggiamento più diffuso è ancora quello di dire «non possiamo farci niente». Ma così facendo la battaglia contro tutte le forme di razzismo si esaurisce soltanto sul versante repressivo. «Le società devono avere più coraggio», insiste Mauro Valeri, il sociologo che è il più grande studioso del razzismo nello sport italiano, e da anni fa il giro d’Italia per provocare una riflessione sul problema anche dentro i club, non soltanto fuori. Salto di qualità Per Valeri c’è da fare un salto in avanti almeno in due direzioni: spendere la visibilità e la popolarità dei giocatori per lanciare delle campagne che superino le barriere dello stadio e arrivino, per esempio nelle scuole. Studiare le esperienze all’estero e lavorare sulla «formazione» di tutto il mondo del club, dirigenti compresi. Altrimenti resteremo aggrappati soltanto agli una tantum. Il nostro calcio ne ha una collezione: dalla ribellione di Zoro ai giocatori del Treviso con le facce dipinte di nero per solidarizzare con il loro compagno Omolade, bersagliato dal boicottaggio della sua stessa tifoseria, fino ai Boateng e ai Constant di questo 2013. Valeri, fra l’altro, crede sia arrivato il momento di inserire fra le varie formedi «discriminazione » da punire anche quella che riguarda l’orientamento sessuale.

Quel giorno del ‘68... C’è da costruire una quotidianità di impegno. Soprattutto combattendo l’indifferenza o il famoso «io non c’entro niente», che è diventato un’espressionescudo molto popolare in Italia, non solo nel calcio. Fra qualche giorno, cade un anniversario importante della storia dello sport. Il 16 ottobre del 1968 Tommie Smith vinse la medaglia d’oro dei 200 metri all’Olimpiade di à del Messico. Il suo connazionale John Carlos conquistò il bronzo. Per gridare contro il razzismo nel loro Paese, gli Stati Uniti d’America che oggi hanno un presidente dello stesso colore della loro pelle, scelsero il silenzio: salirono sul podio scalzi, ascoltarono l’inno nazionale a testa bassa alzando un pugno guantato di nero. Una storia ormai lontana, alcuni dai 50 in su se la ricordano, molti altri no.

Un esempio chiamato Peter Ma quando quella storia viene raccontata sui libri, un altro protagonista viene scambiato per comparsa. Su quel podio salì anche Peter , australiano, bianco. Per solidarizzare con Smith e Carlos indossò un distintivo dell’associazione che aveva promosso la loro protesta. Quel gesto gli costò l’Olimpiade successiva (a Monaco non fu convocato) e una vita di «discriminazioni», ancora questa parola. Quando morì, nel 2006, Smith e Carlos portarono sulle loro spalle la sua bara. Magari se in tante scuole italiane, il 16 ottobre, si raccontasse la storia di quell’amicizia, forse fra qualche anno avremmo un’arma in più per combattere il razzismo. Perché Peter non disse mai: «Io non c’entro niente».