CORSERA (G. BUCCINI) - Massimo DAlema, che di finanza non pare certo alloscuro, si lasciò strappare il suo autorevole viatico da tifoso sulle colonne del Romanista: «Sarò preoccupato fino alla firma di Pallotta. È lui lamericano coi soldi». Si era ad aprile dun anno fa, poi Jimmy Pallotta firmò davvero nel giro di due settimane, tra grida di giubilo su entrambe le sponde dellAtlantico: uomo forte della cordata di Tommy DiBenedetto nel rilancio della Roma Calcio
Totti bisogna prenderlo seriamente, quando scherza. Perché la Capitale, abituata a metabolizzare papati, invasioni e rivoluzioni (e volendo persino qualche marziano, come nel racconto di Flaiano), pare avere già triturato anche il grande sogno duna squadra che si reggesse su merchandising, marketing, nuovo stadio di proprietà, gemellaggi calcistico-turistici, insomma tutta roba molto lontana dallultimo scudetto cacio e pepe targato Sensi e soprattutto dal core de sta città vendittiano. I soldi, poi, ci saranno? «Qua non è questione nemmeno dei soldi che non ci mettono», dice Enrico Vanzina, romanista da mezzo secolo: «Abbiamo avuto pochi presidenti illuminati, molti caciottari, alcuni di regime, ma non mera mai capitato di vedere unassenza totale di presidenza. Questa presidenza virtuale dà un senso di precarietà assoluta, sembra unoperazione delle banche comemolte cose italiane di questo periodo». Già sulla presidenza sè consumata una bella parte della soap americana. Perché sulla carta il presidente sarebbe ancora Tommy DiBenedetto, ma tutti dicono che non conti un tubo da quando Jimmy Pallotta gli ha fatto fuori le deleghe piazzando i suoi uomini in consiglio damministrazione. La favola dei primimesi, molto costruita attorno a DiBenedetto, raccontava di questi quattro amici bostoniani: con Tommy e Jimmy, Ricky DAmore e Micky Ruane, tre italo-americani e un irlandese, una scommessa nata quasi al bar di Hanover Street, North End. Di- Benedetto era accreditato di solidi contatti persino con la Cia, essendo chairman della «Jwi», il cui fondatore ha lavorato una vita nellAgenzia. Tra scetticismo e attesa messianica, londa lunga di Tommy è stata prosciugata da Jimmy, accreditato di un patrimonio da un miliardo di dollari e di una forte propensione al miracolo sportivo avendo riportato alla vittoria cestistica i Boston Celtics. I «pallottiani» Brian Klein eMark Pannes sono entrati nei piani alti della società di cui Unicredit continua a mantenere il 40 per cento (erogando ancora credito prezioso). David Thorne, lambasciatore di Obama a Roma, ha garantito: «Gente seria, faranno grande la vostra squadra ». Ma la distanza è rimasta siderale: più che il marziano di Flaiano, Alien. «Come si dice, è ora che si diano una mossa sti americani», sbotta Pippo Marra, papà dellagenzia di stampa Adnkronos e da diciottanni membro del cda romanista («una missione»): «Roma chiama Washington, lidea duna squadra fatta da americani di origine italiana è una chance. Ma io non credo a società senza cuore e anima. E Totti interpreta lanima della Roma ».
La città è stralunata dalla campagna acquisti (perso Borini, svincolato Juan, chissà quando mai arriveranno i campioni che Totti vorrebbe): le radio sono spaccate. Pare che il mitico «Marione », da sempre sensiano doc, stia con Centro suono sport sulla sponda del fiume a vedere passare il cadavere degli yankee, avversato da Teleradio Stereo. In mezzo, il popolo secondo cui «la Roma non si discute, si ama», incastrato nella variante di Zeman: che conta, eccome. Sulle spiagge di Ostia e Fregene spuntano le magliette arancioni «Habemus Zeman», e molti pensano che il boemo più amato nella Capitale sia il parafulmine perfetto per un progetto societario che stenta. Antonello Venditti, che passa appunto per uno zemaniano di ferro, sfugge con una risata alle domande sugli americani: «Dai, sto in ferie!». Non possiamo non dirci zemaniani, insomma, il resto verrà... Certo, criticare è facile, dimenticando il punto di partenza: una voragine di debiti. Ora la Roma affronta la tournée negli States: Chicago, Boston, New York. Per la terza tappa si è faticato a trovare lavversario: le big vogliono soldi e alla fine si è optato per una rappresentativa del Salvador dopo la pazza idea di un derby con la Lazio. La vulgata del tifoso raziocinante sostiene che «questi non ci mettono i soldi ma almeno hanno il knowhow», che però dalle parti del Testaccio suona come una parolaccia. Dal punto di vista della gestione extra-calcistica molte cose sono migliorate: lo stadio più fruibile per le famiglie, gli sponsor, lottimo accordo con la Disney (Totti e compagni andranno ad allenarsi a Orlando nella pausa invernale) che ha fatto ingelosire Barbara Berlusconi e il Milan. Il problema è che tocca poi giocare a pallone. «Senza quattro o cinque campioni non vai da nessuna parte», medita Gigi Proietti: «Ma a Roma ne abbiamo viste di tutti i colori e mica solo nel calcio». Massimo Ghini taglia corto: «La nostra Storia, con la esse maiuscola, ci ha viziati: crediamo che cè subito una persona pronta a fare tutto. E comunque, coi guai che ha il Paese, questa mi sembra lultima delle nostre preoccupazioni». Sarà, ma i laziali intanto sorridono, ricordando come lunico Pallotta che si veda davvero a Roma sia quello della famosa trattoria di PonteMilvio: lazialissimo. In un derby che qui dura 365 giorni, la provocazione è pane quotidiano. Betty Davis avrebbe detto: allacciate le cinture, sarà un bumping ride, un volo burrascoso. Con Tommy e Jimmy ci vuole minimo il paracadute.