Il primo quattro di don Fabio

13/03/2011 alle 12:17.

IL ROMANISTA (P. MARCACCI) - Quattro e non più quattro", un po’ come la simbologia medioevale e i vaticini vari attorno all’anno Mille; numero ricorrente, cabala giallorossa, successione di svuotamenti anticipati per la Nord: quest’ultima neppure Nostradamus l’avrebbe capita; a proposito forse era il primo laziale della storia, visto che quando le cose non andavano come aveva previsto era avvezzo ad aggiustarsele in modo da dimostrare che aveva comunque ragione lui, un po’ come in un talk show biancoceleste.

 

Capello fu particolarmente prudente nelle dichiarazioni del pre-partita, lo stesso atteggiamento che il tecnico friulano aveva saputo tenere quando, alla guida del Milan, gli toccò affrontare nella finale di Coppa dei Campioni lo stellare di Cruijff, ad Atene nel 2004. Anche in quel caso, lasciò che a straparlare fossero gli avversari, prima; per poi portarsi a casa un bel "quattro", dopo. Dunque, baldanza lazialeggiante alla vigilia, pallottolieri allertati, Roma che doveva fungere da agnello sacrificale sull’altare della straripanza "biancazzura"; improvvidamente, nessuno di loro prese in considerazione il fatto che, quando si parla di agnelli e quindi di ovini (ma vale anche per i bovini, con vasta gamma di accezioni), l’argomento è molto più riconducibile al mondo laziale. Anzi, alla galassia, visto che quel giorno affrontavamo i marziani. La prima cosa che non capii, quella domenica, fu il fatto che la S.S. Lazio arrivò in pullman come sempre, invece di optare per il disco volante; forse non passava dal boccaporto sotto la Nord, chi può dirlo... Comunque sia, nessuno di noi romanisti, quel giorno, si recò all’Olimpico pensando che di lì a poco avremmo assistito alla mezzora più adrenalinica della storia dei nostri derby. Cominciò subito e non saprei dire se fosse più immobile la Nord, in quel momento, o la retroguardia degli alieni: Zanetti dal cerchio di centrocampo individua, semplice semplice, un corridoio per Marco Delvecchio, che parte sulla linea del fuorigioco e fila verso Marchegiani: un goal da Subbuteo, a Sinisa e compagni manca solo la pedana ovale sotto, a giudicare da come restano schierati. Forse c’avevano solo fatto sfogare all’inizio, i marziani di Formello, per poi prenderci a pallonate, come i conduttori radiofonici di fede laziale profetizzavano da un paio di settimane; non deve averle ascoltati il milanese Amedeo Mangone, che fuori dal campo portava gli occhiali ma che quella domenica ci vide benissimo nel pescare, con un rilancio da poco oltre l’area romanista, Vincenzo Montella, defilato sulla destra: capolavoro è anche far sembrare semplice e lineare ciò che per altri sarebbe impossibile: tra l’aggancio magnetico con il e la traiettoria eccentrica del pallonetto effettuato col sinistro, passò una frazione di secondo in cui sembrò essere lui, il marziano: 2-0 per la Roma, subito, così, come mettere sul fuoco una passata Cirio, all’epoca sponsor intergalattico.

 

Troppo presto, troppo bello per essere vero: questo pensavamo, in Tribuna Tevere, prevedendo la possente reazione biancoceleste; senonché, in area laziale individuò un cunicolo così stretto che solo Delvecchio poteva avere la forza di crederci e solo Luca Marchegiani aveva intuito che gli si sarebbe presentato davanti di lì a un istante: a Delvecchio bastò sfiorarla con la punta dello scarpino senza calpestare il guanto del portierone biancoceleste: il minimo sindacale di fatica per un tre a zero. "Oddio!" cominciava a gridare qualcuno dei nostri in tribuna, forse per la rotondità subitanea acquisita dal risultato, ma più probabilmente perché s’era ricordato di qualche parente laziale dalle coronarie non proprio a posto. Già non si capiva più nulla, forse i marziani avevano trovato traffico, succede nelle domeniche in cui la Roma gioca in casa o forse avevano avuto problemi col visto, alle porte della galassia: gli restava solo Galasso, in quel momento e questo demenziale gioco di parole perché fu lo stesso che mi venne in mente, in quell’istante di quel 21 novembre 1999. Non può finire così, pensavano in Curva Nord e pensavano i laziali tutti; lo avrei pensato anch’io, al posto loro. Si sarebbero pentiti di averlo pensato di lì qualche minuto, quando un altro rilancio della retroguardia romanista pescò Montella tra Marchegiani in uscita e Mihajlovic in ritirata; Sinisa sta ancora cercando Montella, Marchegiani sta ancora cercando la palla, io sto ancora cercando di capire come riuscii ad evitare il colpo apoplettico da gioia incredula, credo si chiami così la patologia in cui puoi incappare quando in un derby da sfavorito ti ritrovi sopra di quattro dopo mezzora.

 

Delvecchio-Montella-Delvecchio- Montella: filastrocca che avremmo recitato in altre occasioni, magari con alternanza variata; per quella domenica in cui ci presentammo da quarti in classifica contro i marziani che erano già primi poteva bastare però, anche se le cronache pretendono che si parli pure di un rigore per discutibile fallo di mano di Aldair, a terra, su un dribbling di Veron: parliamone, perché fu sublime vedere Sinisa che, dopo averlo trasformato (per un pelo, Antonioli aveva scelto l’angolo giusto) andò a prendersi la palla con rabbia, segno che credeva nella rimonta. Il resto, solo festa, cori della Sud, un mesto sfollare sbiadito nelle sciarpe e nelle facce sul lato nord dell’Olimpico; Eriksson in piedi, col consueto aplomb, all’interno della propria area tecnica. O era ’na paresi