IL ROMANISTA (L. PELOSI) - Michael Jordan non è solo il più grande giocatore di basket di tutti i tempi. E non è neanche solo uno dei pochi atleti di cui si possa dire, senza aver paura di confrontare epoche diverse, che nel suo sport è stato il più grande di sempre. Perché cè unaltra cosa che si può tranquillamente dire di Michael Jordan, e cioè che non è mai esistito alcun singolo atleta capace di dominare in uno sport di squadra come ha dominato lui nel basket. E non si tratta di cifre e trofei, si tratta di qualcosaltro. Qualcosa a cui forse avrà pensato domenica sera Gian Paolo Montali, uno che di sport di squadra se ne intende (e che, oltre ad aver allenato nella pallavolo, va spesso a vedere anche il basket)
Le origini, innanzitutto. Il papà di uno era falegname, quello dellaltro era meccanico. Entrambi sono cresciuti
imparando il valore delle cose. Cresciuti, già, mica era scontato. Una decina di centimetri in un anno, Jordan
qualcuno in più. A 15 anni uno segnò a Wembley, laltro fece la sua prima schiacciata. Il talento ha fretta, non si fa mai aspettare, ma non è mai solo quello che fa la differenza. La differenza, rispetto agli altri, parte dalla testa. Michael Jordan ha cominciato a vincere quando ha cominciato a invecchiare. Il primo titolo Nba è arrivato nel 1991, a 28 anni. La sua grandezza ha avuto la massima espressione a 30 anni passati, nel secondo three-peat, tra il 1996 e il 1998. E in tutto questo tempo, ha dimostrato di saper fare tutto: il migliore negli assist, in difesa, al tiro, in penetrazione, fronte o spalle a canestro, e qualsiasi altra cosa venga in mente. Ogni tanto aveva voglia di dimostrare di essere il numero uno non solo segnando punti. Un po come i gol di Totti: di testa, di sinistro, di destro, di potenza, di precisione, al volo, di controbalzo, su rigore, su punizione, di tutto. O come i suoi ruoli: trequartista, seconda punta, ala sinistra, centravanti (e da piccolo pure mediano davanti alla difesa). Ogni tanto scopri che sa fare qualcosa di diverso, che non avevi mai visto prima.
Testa, si diceva. Voglia di migliorarsi e di lavorare per riuscirci. «Totti si allena meglio oggi che quando ci giocavo insieme», ha detto, dicendo praticamente tutto, Vincenzo Montella. Testa però non è solo questo. E anche la capacità di crearsi uno schermo, di proteggersi da tutto ciò che arriva da fuori, come è fatale che sia per un Campione. Jordan ci è riuscito con la sua irrefrenabile voglia di essere il numero uno, Totti con la sua innata capacità di farsi scivolare addosso tutto. Una linguaccia da una parte, unalzata di spalle dallaltra. Serve a proteggerti anche dalle sconfitte. «Nella mia carriera ho sbagliato più di novemila tiri. Ho perso quasi trecento partite. Ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e lho sbagliato. Nella vita ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto». E una delle frasi più celebri di Michael Jordan, come anche il «posso accettare la sconfitta, ma non posso accettare di rinunciare a provarci». E attraverso lerrore che si diventa grandi. E senza la paura dellerrore che si fanno le cose giuste. Tipo il tiro decisivo della finale Nba con 40 di febbre, facendo girare la caviglia in modo innaturale. O un calcio di rigore al novantesimo in un Mondiale, con qualcosa di innaturale dentro la caviglia. A cosa pensavi? «A come esultare dopo». Mica alla possibilità di sbagliarlo. Qualche rigore di troppo potrà anche averlo sbagliato in carriera, ma è proprio per questo che ha segnato quelli più importanti.
Testa, testa, testa. E capire che se non puoi tu, tocca a un altro. Così Jordan, raddoppiato, passa la palla al miglior tiratore della squadra, Steve Kerr, e vince il titolo. Così Totti, ogni volta che cè un compagno meglio piazzato, sa sempre come fargli arrivare il pallone. Testa è stare sempre un passo avanti, perché quando sei il più forte e lo sai, non ti resta che farlo sapere agli altri. Sono i tifosi che se ne accorgono per primi. La gente allo United Center di Chicago canta semplicemente «Em, vi pì» (Most Valuable Player), allOlimpico di Roma canta «Cè solo un Capitano». Non cè mica bisogno di pronunciare il nome, si capisce già di chi si sta parlando. Se ne accorgono i compagni, che si sentono più forti e sanno a chi passare il pallone nei momenti difficili. Lo sentono gli avversari, anche se non fai niente. Jordan era in grado di batterti con uno sguardo. Totti entra in campo in Coppa Italia contro il Torino che ti sta eliminando, con squadra e pubblico depressi, e cambia tutto: lui tocca un pallone, fa 2 gol, la Roma vince 4-0 e passa il turno. 200 gol (tutto compreso, mica solo in campionato) anche quel giorno, tre anni fa. Una settimana fa, Hernanes chiede a Muslera: «Solo 4 in barriera?» Nella sua testa ha già preso il gol di Totti.
Già, la testa. Si obietterà, a ragione, che la testa di Jordan ha dimostrato più resistenza di quella di Totti. Vero,
anche se tra il 93 e il 95 il 23 dei Bulls ha salutato tutti e si è messo a giocare a baseball. Ed è anche vero che intorno a sé ha sempre avuto tutto ciò che può dare a un campione lorganizzazione di una società professionistica americana. Purtroppo da queste parti sta arrivando solo adesso. «Ora ho fatto qualcosa in più di Magic e Bird», disse Jordan al terzo titolo consecutivo. «Ho superato Baggio», dirà tra poco Totti. E quando cominci a giocare per i posteri che sei diventato veramente grande. Quando letà avanza e non ti fermi. Quando guardi al passato pensando a ciò che lascerai al futuro e questo è il tuo presente. Quando sei fuori dal tempo. Come un tiro allultimo secondo, dalla lunetta o dal dischetto.