Gli americani sono già a Roma: "DiBenedetto, facci sognare"

10/02/2011 alle 10:37.

IL ROMANISTA (D. GALLI) - America’, facce Tarzan. Quindici anni dopo quella strepitosa pellicola di Alberto Sordi, alias Nando Mericoni, gli americani hanno fatto Tarzan per davvero.


Anzi, hanno fatto Tarzan e pure qualcosa di più. Nel 1969 hanno portato a Roma stars and stripes, stelle e strisce, del sogno americano. Qui all’American University of Rome ti insegnano a coltivarlo. Alla maniera loro, però. Quella dei college, dove lo studente è al centro dell’attività didattica e la à - la nostra à - è la loro classroom. La classe. Qui è il Gianicolo. Il cannone alle spalle, erFontanone è a due passi, Roma sta là sotto. L’orizzonte è reso rarefatto dall’aria stagnante, figlia di un’alta pressione che da settimane gravita, imperterrita, su Roma. Ma da lassù, da questo stabile metà giallo e metà rosso (sul serio) dove studia un angolo di mondo multirazziale - americani, arabi, sudamericani, indiani, e persino italiani - c’è una visuale pazzesca.


Lontani dai miasmi del traffico capitolino si ha una panoramica decisamente migliore della vita. Della vita, ma pure della trattativa tra Unicredit e Mr. DiBenedetto & Co. All’American University of Rome non c’è uno che non tifi per la cordata a stelle e strisce. Aggiungiamo: ovviamente. Gli americani a Roma esistono. E devono passarsela pure discretamente bene. Perché per sei mesi in questo ateneo ci vogliono seimila euro. «Ma guardi che la retta è molto inferiore a quella dei college USA», si affretta a spiegare miss Maurizia Garzia, l’assistente esecutiva del presidente. Non lo mettiamo in dubbio. E in ogni caso, questa non sembra Italia. Il prezzo è proporzionato a quello che l’università ti mette a disposizione. Una sala computer, giardini dove è possibile studiare nel più assoluto silenzio, aree relax. L’italiano è un’eccezione.

Si parla la lingua degli affari. Del business. Si parla la lingua di DiBenedetto. Del possibile futuro presidente dell’As Roma. «Sì, l’italiano è l’eccezione. Però non pensi che qua siano tutti americani. Vede quello studente lì? Viene dall’India. E quell’altro piegato sui libri? È arabo. Questo è un campus internazionale». Il professor Bjørn Thomassen è la conferma vivente di quello che viene riportato sul depliantinformativo: qui si incontrano uomini e donne di quaranta nazioni. Esattamente come avviene ogni giorno nelle Avenue e nelle Street di New York. Che ci fa in un college americano a Roma un docente danese («sono di Bornholm, un’isoletta nel Baltico, bel posto, tranquillo, ma forse pure troppo») di scienze politiche e antropologia? «Sono arrivato in Italia per amore. Mi sono sposato con una...». Con un’italiana? «No, di più. Con una famiglia romanista». Tanto di cappello, mister Bjørn. «Dico sul serio. Sono in Italia dal ’97, a Roma dal 2003 ma in dal 2001». E due: tanto di cappello. «Pensi. Mio cognato è di Gradisca, in provincia di Gorizia. Sapendo che era uno sfegatato tifoso della Roma, all’inizio della mia permanenza nel vostro Paese gli ho fatto credere, per gioco, che ero laziale. Per anni - Bjørn lo dice sorridendo - mi ha guardato con diffidenza». Per loro - docenti e studenti dell’American University of Roma - la vendita dell’As Roma è una cosa serissima. Più di quanto lo sia in Italia.


E il professor Thomassen ci spiega la ragione. «Per voi il calcio sono solo chiacchiere da bar. Nei Paesi anglosassoni è considerato invece un fattore economico, politico e sociale. Il prossimo semestre il professor SimoMartin terrà qui un corso su calcio e politica. E un nostro studente, due anni fa, usò una tesi sull’organizzazione del tifo laziale per chiedere un dottorato di ricerca a Londra. Lo ottenne». Il pallone fa parte integrante del tessuto cittadino. "Roma è la nostra classroom", è il motto dell’ateneo. Quindi, per logica conseguenza, lo è anche l’As Roma. «Stiamo tutti tifando per l’offerta americana", commenta Thomassen. "Se andasse in porto - prosegue - permetterebbe di rafforzare il nostro legame con gli Stati Uniti. I nostri studenti si riconoscono nell’italoamericano DiBenedetto». Ma cosa si sa nell’American University of Rome di questo businessman bostoniano? Ben poco, conferma Thomassen: «Abbia-mo appreso dai giornali che la loro proposta economica è seria. Ci solletica l’idea di fare marketing negli USA attraverso l’As Roma».

Per i docenti, DiBenedetto è un’occasione di crescita. Per gli studenti, è l’uomo che può far restare grande l’As Roma. La pensano così l’italianissima Giulia («scriva che sono una fan sfegatata di Borriello, ma che per me ogni cosa viene dopo »), l’ex americano Orfeo («sono italiano, ma ho vissuto fino a 17 anni negli States») e la russa Lia, che ha scelto di venire a studiare a Roma da Mosca, dove viveva, perché Roma - anzi, l’As Roma - ce l’ha tatuata sulle spalle. E nel cuore. A questa appendice italiana della cultura made in USA è ignota l’identità di Mr. DiBenedetto. Ma è ignota anche quella del loro futuro presidente. Già, perché l’attuale numero uno dell’American University of Rome, Andrew Thompson, è ad interim. «Presto ci saranno nuove elezioni. Noi sapremo chi sarà il prossimo presidente solo a cose fatte», ci dice miss Garzia. Vabbé, ma chi sono i candidati? «Non si sa. È un’informazione confidenziale». Ci risiamo. Era confidenziale il numero dei possibili compratori americani dell’As Roma, e figuratevi se non erano confidenziali i loro nomi. «È tutto confidenziale negli Stati Uniti. La privacy ha un valore fondamentale», chiarisce sorridendo miss Garzia. E comunque non è vero che nessuno sappia chi sia DiBenedetto. «Uno dei componenti del nostro Cda dovrebbe essere in contatto con lui».


Ad Andrew Thompson, sangue britannico, dello Yorkshire per la precisione, moglie e figli italiani («Luca, 6 anni, mi ha già chiesto una maglietta romanista») e trascorsi da baby tifoso del Leeds United, scintillano gli occhi. Un futuro americano per l’As Roma sarebbe il massimo per l’American University of Rome. «Sapevamo - dice Thompson - della passione di DiBenedetto per lo sport e del suo rapporto con i Boston Red Sox. Alla luce dell’investimento non indifferente e delle sue origini italiane, ci farebbe piacere conoscerlo. Magari potrebbe venire anche ad assistere a qualche partita delle nostre squadre». L’università ne ha due: gli "Wolves" per gli uomini e le "She Wolves", per le ragazze in tacchetti e gonnella. Thompson ha un’idea: «Si ventilava la possibilità di offrigli una carica onoraria del nostro ateneo. A maggior ragione, se davvero venisse a vivere a Roma». Eh già, sarebbe un dream, per i romanisti. Ma lo sarebbe anche per questa università arrampicata su San Pietro. Sarebbe l’american dream.