Kawasaki come Sebino, "Great balls of fire"

08/09/2010 alle 11:06.

IL ROMANISTA (M. IZZI) - PER AVVIARE una piccola riflessione sul ruolo degli insostituibili della storia della Roma, con un occhio di riguardo al ruolo di esterno sinistro, sarebbe stato divertente affidarsi alla disamina tecnica di Oronzo Pugliese. Il Mago di Turi, certamente, di fronte alla parola “insostituibile” sarebbe inorridito: «Per me – tuonò in una bella intervista concessa al Corriere della Sera nel luglio del 1965 – ogni giocatore deve morire sulla palla e per quello che riguarda il mio linguaggio, beh, e che sono un professore d’Italiano? Che devo fare le poesie in panchina?». Insomma, per Pugliese, la cosa fondamentale era che i suoi atleti “sputassero i polmoni sull’erba”, la fortuna di avere un fuoriclasse che gli togliesse le castagne dal fuoco non l’ebbe mai. Per usare le sue parole, la Roma di quegli anni non aveva: «grandi nomi

 

Neanche cinque anni dopo il tramonto giallo-rosso di Don Oronzo, all’orizzonte della Lupa si affacciò la stella

dell’insostituibile per antonomasia: Francesco Rocca. Nella ragnatela ideata da Liedholm nella prima metà degli anni 70, tra tanti sublimi interpreti del tic-toc voluto dal maestro svedese, Kawasaki è la variante che scompagina le carte. Il pallone sapientemente danzante sullo spartito di un valzer, nei suoi piedi inizia a muoversi al ritmo di Jerry Lee Lewis: “Great balls of fire”. Agostino Di Bartolomei gli urla di “mettere la freccia”

e la palla diventa davvero di fuoco. La velocità di Rocca è un’arma devastante, il suo spunto in progressione un gesto tecnico paragonabile per efficacia al gancio cielo di Kareem Abdul Jabbar, o al Fosbury flop di Dick Fosbury. Francesco Rocca, naturale, utilizzato per necessità e capacità di adattamento sulla fascia sinistra, era un insostituibile e questo dogma assoluto ha finito per pesare non poco, anche nelle amare conseguenze dell’infortunio subito nell’ottobre del 1976. Trovare un atleta che incarni come lui il significato del termine insostituibile non è cosa da poco. Prendiamo ad esempio, un campione mostruoso come Sebino Nela (che a Brunico ebbe modo di dividere la stanza con Rocca … praticamente la versione difensiva dell’incontro tra Di Stefano e Puskas). Aveva vissuto a fasce invertite lo stesso destino di Francesco, essendo un sinistro naturale costretto da Liedholm a giocare a destra, e del suo predecessore conservava attaccamento alla maglia ed esuberanza atletica.


 

Il vero insostituibile della Roma dello scudetto, però, non era Nela e forse, anche se sfioriamo l’eresia, neanche Falcao. La pedina inamovibile di quella squadra immensa, era Pietro Vierchowod. La velocità del russo era mostruosa, provate a rivedere al rallenty una partita della Roma del 1983, sullo schermo lui continuerà a correre, mentre gli altri sembreranno diventati cloni del robot D3BO di Guerre Stellari. Questo jolly permise alla Roma di arretrare Di Bartolomei a libero, facendolo avanzare nelle azioni offensive e creando quella superiorità a centrocampo che “ucciderà” il campionato. Sulla stessa falsariga, anche Alfred Schaffer, nel 1942 ebbe un’arma segreta. Non era il giovanissimo terzino sinistro Sergio Andreoli, appena giunto nella capitale, che pure diede il suo notevole contributo. L’input capace di mandare in tilt gli avversari (escludendo per manifesta superiorità Capitan Masetti) era rappresentato da un giovanotto che in passato si era a lungo disimpegnato come ala destra, per poi passare a centravanti, Amedeo Amadei. Dalle sue ripartenze la Roma traeva enormi vantaggi.

 

Altri esterni indimenticabili della nostra storia sono Renato Bodini e Vincent Candela. Il primo era irrinunciabile

per gli allenatori che lo ebbero a disposizione sia per l’esuberanza atletica che per il violentissimo calcio di

punizione che teneva in perenne apprensione le difese avversarie. Vincent Candela, viceversa è un Gronchi rosa, “raro” per la capacità di unire la quantità alla qualità di una mirabile tecnica individuale.