Era la nostra .. ce la siamo presa

24/01/2010 alle 13:32.

IL ROMANISTA (S.PETRUCCI) - Era la nostra partita, la partita di Claudio Ranieri e di tutti i romanisti. E ce la siamo presa, con la lucida ferocia che accompagna ormai da quasi tre mesi questa squadra perfetta. Gratta e vinci, caro Bettega dal sorriso...

Due palloni toccati, il riacutizzarsi del problema al polpaccio  sinistro, una raffica di comprensibili imprecazioni e via. Certo, stavolta a subentrare al colosso atteso da anni c’era Francesco, mica un ragazzino o un mezzo giocatore qualsiasi. Ma, è un fatto, dopo centottanta secondi la Roma si è ritrovata a dover costruire un match completamente diverso da quello che aveva preparato per una settimana. In campo è rimasta la sostanza, è ovvio, incarnata da quel Pizarro capace di soffocare come un minuscolo gigantesco pitone Diego, che fu devastante per Spalletti all’andata. E da Juan, implacabile nel cancellare dalla sfida Amauri. E da Taddei e Riise, micidiali martelli sulle fasce. E da Perrotta, impreciso ma instancabile nel suo movimento a pendolo. Ma c’è comunque voluto un po’ per ritrovare gli equilibri giusti, orfani del terminale grande e grosso cui si voleva affidare l’assalto a Buffon, con entrato a freddo e persino invitato da Ranieri a non affondare troppo lo scatto. Per una discreta porzione della prima parte, se si escludono i tocchi sempre illuminanti del capitano, il gioco romanista pure organizzatissimo è sembrato trovare sbocchi offensivi soprattutto nei lampi di Vucinic, uno che certe partite le ha certamente nelle corde, ma che al posto delle scarpe chiodate pare sempre infilare gli splendidi piedi in due pantofole odorose di borotalco. Movimento tanto, conclusioni poche.

Poco male, sarebbero arrivate al momento giusto. La Roma del resto si è distribuita sul campo in modo esemplare, sin dal primo fischio di Tagliavento (il nostro portafortuna: dieci arbitraggi, dieci vittorie), producendo un pressing formidabile. La più viva del solito, aggrappata soprattutto ai ruvidi muscoli di Sissoko, è parsa a lungo in grado di imporci brividi solo sui palloni alti, gli unici che gli uomini di Ranieri hanno concesso agli avversari di scagliare verso la loro area: ma, tampinati alla perfezione da Juan e compagni, Amauri, Marchisio e Del Piero non sono mai riusciti a inquadrare lo specchio di Giulietto Sergio. Poi, all’improvviso, ce l’ha fatta proprio Del Piero, una manciata di minuti dopo il riposo, mandandoci di traverso anche le parole di miele pronunciate alla vigilia: “Se sommiamo i gol miei e di Francesco, superiamo quota 500: per me è un orgoglio giocare contro avversari così”. Dentro a quel rabbioso drop sinistro, che dopo mille rimpalli ha tagliato a fette la nostra porta prima di schiantarsi sul palo interno e poi in rete, abbiamo avuto paura di rileggere le pagine più amare della nostra storia. La sfiga che spesso ci attanaglia opposta alla sfacciata fortuna altrui. Ma è stato un attimo. Questa è un’altra Roma, ha un altro dna, un altro carattere. E’ la Roma della rabbia, della determinazione, del cinismo. E delle grandi rimonte. Anche a Torino, come altrove, la voglia di non mollare si è trasformata via via in una spinta irrefrenabile. Superata la doccia scozzese del tiro mancino di Del Piero, i giallorossi hanno stretto alle corde gli avversari. E’ stato di Taddei, uno dei grandi resuscitati della gestione Ranieri, il blitz fulminante: un guizzo irresistibile nel cuore dell’area bianconera, Grosso costretto all’abbraccio allocco quanto mortifero, l’esecuzione impeccabile di , un millimetrico a bruciare le dita protese dal gigante Buffon. E non era finita, non poteva finire senza che l’imperatore Claudio, rimasto ben lontano dai dirigenti che lo cacciarono come un barbone (“Ho salutato Ferrara e i giocatori, gli altri non li saluto”), consumasse la sua vendetta.

Ancora Taddei ha lanciato nello spazio la formidabile corsa di Riise, quasi centro metri da mezzofondista a squarciare la difesa della costringendo Buffon all’intervento da . La squadra di Ferrara in dieci nel finale elettrizzante, quella di Ranieri sempre più convinta di doversi prendere la partita. Ecco allora un altro lampo, quasi allo scadere: il pallone strappato da Pizarro a Diego, il cross di selvaggia bellezza, la martellata di Riise lanciato verso Manninger come un ariete. Gratta e vinci, vinci e gratta. Ottavia vittoria in undici partite, la terza di fila, più tre pareggi. Nessuno ha fatto meglio, nemmeno l’Inter per una notte lontana otto punti, mica un’enormità. Pare un sogno eppure è proprio così: forse il bello deve ancora venire.