IL ROMANISTA - Lho amato dal primo istante. Juan Silveira Dos Santos. Da quando, nel suo esordio allOlimpico, soffiò la palla a Maccarone con la destrezza di Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo. Due anni dopo, Maccarone ancora la sta cercando la palla e io sono sempre più cotto di Juan. Esulto quando leggo, ieri, Mino Fuccillo, che stimo assai, scrivere il suo elogio. Leggo e rilancio. Cè del sublime in Juan. Il calcio ti confonde, scorre rapido, cambia di continuo paesaggio e attori, ma prova una volta a isolare il brasiliano, mettilo dentro un cono di luce, segui al dettaglio i suoi passi panterati. Due cose strabiliano. Lintuizione e il tempo, dunque la musica. La seconda è conseguenza della prima. Juan sa sempre dove nemmeno la palla sa che deve andare. Lo sa prima degli altri dove va e sa dunque come impadronirsene. La tecnica è quella del perfetto borseggiatore in qualunque autobus allora di punta. Sta lì in agguato, confuso nel mucchio, zitto, con quella faccia un po qualunque. Sta lì e aspetta. Il gesto con cui ti sfila il portafoglio è chirurgico. Quando il contatto dei corpi, la posizione della borsa e linnocenza della vittima si combinano nella perfetta congiunzione dellattimo fuggente. Il borseggiatore, se è bravo, non ti lascia mai un graffio.
Avete mai visto Juan commettere un fallo? Non ne ha bisogno. Cè un prima e cè un dopo quando ti portano via la palla dai piedi. Prima sei un semidio lanciato nella giusta direzione, un secondo dopo un mortale qualunque, finito a terra, nella polvere, urlante, rabbioso, con una caviglia dolorante e un senso di frustrazione addosso. Quando la palla te la ruba Juan, il prima e il dopo coincidono. Ci metti un po a capire cosa ti è successo. Al massimo, prima sei un eroe, dopo un coglione. Cè qualcosa di sovrannaturale nel giocare calcio di Juan. Stiamo parlando del calciatore forse più musicale del pianeta, insieme a Messi. Che, intendiamoci, è molte altre cose che Juan non è. La tecnica mostruosa, linvenzione debordante e tutto il resto. Sono simili, i due, nellorecchio calcistico. Se tu applichi un metronomo ai loro movimenti, troverai sempre il tempo esatto. Due prodigi. Se poi associ il talento di Juan al suo adorabile muso e a una malinconia che non ha nulla di malinconico, ecco il personaggio unico da amare. Che molti tifosi della Roma non abbiano ancora imparato ad amarlo è un mistero.
Juan è molto più interessante e persino molto più Pluto di Aldair, peraltro giustamente venerato da queste parti. Condivido Fuccillo, i linciatori di professione a Roma sono una razza diffusa oltre che spregevole. Fomentatori e gregari. Imbonitori e passaparola. Petomani della facile sentenza. Ne trovi a pacchi nelle pozze di vomito. Riscattano la loro miseria personale, sparando guano sui bersagli più comodi e dalle postazioni più protette. Hanno insultato Juan perché ama la maglia della sua Nazionale, di cui è il capitano, e perché le continue ricadute muscolari lo hanno infragilito nella testa prima ancora che nelle gambe. Dimenticando che si tratta dello stesso giocatore che accettò di scendere in campo lo scorso anno, nella partita più importante della stagione, con una gamba di meno. Il tempo di fare gol e di ricoverarsi in infermeria per unaltra eternità. A proposito delle sorprendenti traiettorie del tifo collettivo, prima o poi, meglio prima, bisognerà aprire poi i capitoli Doni e Pizarro. Il più misconosciuto e maltrattato di sempre il portiere brasiliano. Il più sottovalutato di sempre il professore cileno.