Non ha avuto paura di restare per anni dietro le quinte, avvolto nell'ombra, celato al mondo. E quando è stato illuminato da un fascio di luce non si è fatto pregare, mostrandosi in tutte le sue sfaccettature. Aurelio Andreazzoli si è preso la ribalta orfana di Zeman abbracciando la Roma e i suoi tifosi, rivitalizzando una squadra quasi alla deriva e rilanciando le ambizioni di una società che, dopo scelte rivoluzionarie come quelle di Luis Enrique e del boemo, ha deciso di puntare tutto sul tecnico di Massa Carrara trapiantato a Trigoria.
L'allenatore toscano da otto anni vive infatti all'interno del centro sportivo romanista, lontano dalla famiglia e dalla moglie che sente comunque sempre vicino grazie alle iniziali tatuate sotto la fede nuziale. La sua stanza è rimasta sempre la stessa e lui è diventato una sorta di 'guardiano del farò, tanto che la dirigenza dopo aver esonerato Zeman non ha dovuto neppure dargli le chiavi dello spogliatoio.
A differenza del suo predecessore, poi, ha conquistato col dialogo la fiducia dei giocatori («non si può fare a meno del consenso»), senza però permettere a nessuno di discutere la sua autorità («ascolto tutti, dal primo collaboratore all'impiegato, ma a Trigoria tutti sanno che non si fa niente che non abbia deciso io») e fissando poche regole, ma ferree (in primis gli orari), che nessuno può ignorare.
A Totti e compagni ha chiesto fiducia e tempo, principi chiave sottolineati quattordici anni fa nella sua tesi di fine corso al master di Coverciano per l'abilitazione ad allenatore professionista di prima categoria. «Fiducia che si basa sulle esperienze vissute, e tempo per verificare che i risultati derivanti dalle metodiche di allenamento prima e dalle gare poi dimostrino la loro bontà».
Per il momento, le tre vittorie consecutive in campionato e il gap ridotto a 5 punti dal terzo posto in classifica gli stanno dando ragione, ma per guadagnarsi la riconferma forse non basterà nemmeno conquistare la Coppa Italia.
Andreazzoli comunque tira dritto, sicuro delle proprie capacità («il mio allenatore modello? Sono gli altri che si devono ispirare a me, non io a loro») e conscio del fatto che, come sostenne in passato, «sono totalmente opposti l'aspetto psicologico e la spinta motivazionale fra chi agisce per raggiungere un grande premio, e chi invece avrà come massimo risultato un 'salvataggiò».
Per il sergente di ferro, insomma, traghettare la Roma fino al termine della stagione potrebbe non rappresentare la fine della missione.
(ansa)