PIZARRO: "Vittimismo a Roma? Ci sono le immagini che parlano.."

21/03/2009 alle 13:32.

SPORT WEEK - Dvid Marcelo Pizarro è stato intervistato dal settimanale in edicola n allegato alla Gazzetta dello Sport. Il numero 7 giallorosso parla dell'Italia, del Cile e delle sue prospettive future. Ecco l'intervista integrale. Che calcio è diventato, quello italiano, in cui i giocatori fanno linguacce agli avversari e gli allenatori parlano di prostituzione e coglioni? “Un calcio che non mi piace. Che non è quello che la gente vuole. Che perde credibilità agli occhi del Mondo”. Rispetto a quando è arrivato, com’è la situazione? “Certamente non è migliorata. Io sono qui dal ’99, un anno dopo il rigore non fischiato e Ronaldo in Juve-Inter, e certe polemiche non sono mai finite. E’ dal primo giorno, che sento parlare di moviola”. Lei la guarda? “Mai. Dal momento in cui, finita la partita, mi siedo in macchina per tornare a casa, il calcio esce dalla mia vita. Io amo il mio lavoro, ma non mi faccio soffocare da esso, dalla pressione e da certi veleni”.

Che calcio è diventato, quello italiano, in cui i giocatori fanno linguacce agli avversari e gli allenatori parlano di prostituzione e coglioni?

“Un calcio che non mi piace. Che non è quello che la gente vuole. Che perde credibilità agli occhi del Mondo”.

Rispetto a quando è arrivato, com’è la situazione?

“Certamente non è migliorata. Io sono qui dal ’99, un anno dopo il rigore non fischiato e Ronaldo in -Inter, e certe polemiche non sono mai finite. E’ dal primo giorno, che sento parlare di moviola”.


Lei la guarda?

“Mai. Dal momento in cui, finita la partita, mi siedo in macchina per tornare a casa, il calcio esce dalla mia vita. Io amo il mio lavoro, ma non mi faccio soffocare da esso, dalla pressione e da certi veleni”.

Suo figlio Bastian ha 6 anni. Lo porta allo stadio?

“In Italia puoi farlo soltanto in certe partite, e questo è brutto. Il problema è che, in campo, spesso non si dà il buon esempio. E fuori ci sono eccessi che definisco con una sola parola: in stupidi”.

Dopo l’Udinese, la sua prima squadra italiana, lei ha giocato nell’Inter nel momento in cui vinceva la . Allora si diceva che gli arbitri favorissero i bianconeri: ora che comanda l’Inter, sono i nerazzurri sotto accusa. Significa che nel nostro Paese domina la cultura del sospetto o che, come diceva Flaiano, “gli italiani corrono sempre in soccorso del vincitore”?

“Dubbi e illazioni sono cresciuti dopo Calciopoli. Ma è un modo di pensare tipicamente italiano”.

Mourinho è un provocatore che innervosisce gli avversari o il parafulmine che attira su di sé i lampi della critica per proteggere la squadra?

“Parafulmine? Dice così che gli vuole bene. E’ piuttosto uno molto spontaneo, mai banale, un rivoluzionario del calcio parlato. Non ero abituato alle polemiche tra allenatori: prima che arrivasse Mourinho, fra i tecnici c’era più rispetto”.

ha bacchettato Balotelli per i suoi gesti rivolti ai tifosi e ai giocatori della Roma nella gara contro l’Inter. Qualcuno ha detto che non era la persona più indicata per dare lezioni di comportamento.

“In generale, chi non ha mai fatto star zitti i tifosi avversari dopo aver segnato un gol? Il problema è quando manchi di rispetto a un collega”.

A Roma siete troppo vittimisti?

“Il problema è che sempre più spesso le partite sono decise da episodi: quando questi ti girano sempre contro, allora ti sembra di aver buttato via il lavoro di una settimana. E la Roma è stata di sicuro più penalizzata di altre. Ma non è vero che stiamo sempre a lamentarci: ci sono le immagini. La gente guarda e si fa un’idea. Perché la gente non è stupida”.

Ha più faticato ad ambientarsi a Roma o a Milano?

“A Udine. Ero giovanissimo e arrivavo da una realtà calcistica lontanissima da quella italiana. L’allenatore, De Canio, non mi vedeva; non giocavo mai ed ero depresso. Non ci fosse stata mia moglie, che mi dava forza, sarei tornato in Cile”.

E’ stata dura anche nella vita di tutti i giorni?

“No. I cileni assomigliano molto agli italiani, soprattutto a quelli di Roma (ride)”.

Com’è l’Italia fuori dal campo?

“Un Paese bellissimo che non sapete gestire e valorizzare nei suoi punti forti. Avete in mano un gioiello dal punto di vista turistico, e poi ti trovi davanti un’autostrada come la Salerno-Reggio Calabria. La burocrazia è lentissima, in politica litigate sempre e non vi mettete d’accordo su niente: così il Paese perde competitività. Mi viene il dubbio che non lo amiate abbastanza. E ho una paura”.

Quale?

“Temo che l’Italia possa fare la fine dell’Argentina nel 2001. Vedo gli stessi fantasmi: mi preoccupa la crisi delle banche, la possibilità che la gente perda i suoi risparmi”.

A fine carriera tornerà in patria: è vero che è indeciso tra fare il ministro dello Sport e il dei portieri?

“Pensavo di propormi come ministro dello Sport perché anche da noi è una figura che non esiste. Quanto ai portieri, mi piace osservarli in allenamento. A forza di farlo, ho imparato a parare”.

Ma non è troppo basso?

“Non per le porte di calcetto!”

Aprirà una scuola calcio nella sua à, Valparaiso.

“Credo in questo progetto perché sono nato nei quartieri, conosco bene la povertà e so che lo sport può aiutare a trovare una strada alternativa alla miseria. Ma la scuola la farò fra tre-quattro anni, quando smetterò col calcio, con Riccardo Calvi, mio amico e agente per l’immagine. Sono diffidente e controllo di persona come funzionano le cose che faccio. Per adesso, organizzo tornei con 200 bambini”.

Quante volte l’anno va in Cile?

“Un paio, sempre a Natale. Da noi è una festa che si vive in maniera diversa dalla vostra. Qui aspettate mezzanotte, aprite i regali e andate a letto. Noi facciamo l’alba passando di casa in casa, e dovunque si balla. Non mi sono mai arreso all’idea di trascorrere il Natale in Italia”.

Quando ha capito di poter fare il calciatore?

“Lo capì mio nonno, cui ruppi il naso con un tiro al volo quando avevo due anni. Ma da piccolo il mio sogno era diventare marinaio: nonno

faceva il pescatore, papà vendeva al mercato e io ero sempre in mezzo al pesce”.

Che Paese è oggi il Cile?

“Il popolo è unito. Stiamo molto meglio di altri Paesi sudamericani, anche dal punto di vista economico, ma la ricchezza resta in mano a

pochi”.

Lei è un sostenitore del presidente, la socialista Michelle Bachelet.

“Mi convince la sua voglia di lavorare, e di farlo in prima persona. Il problema è che per troppo tempo ha avuto intorno persone inadatte ai suoi scopi: ha dovuto cambiare quasi tutti i ministri, e questo ha rallentato l’opera di ricostruzione del Paese. Dei trasporti e della scuola pubblica, per esempio: fu distrutta dalla dittatura per favorire gli istituti privati”.

Quanto è lunga ancora l’ombra di Pinochet?

“Si sta accorciando, e sai perché? Perché alle ultime elezioni amministrative à importanti come la capitale, Santiago, o Valparaiso, sono finite in mano alla Destra. Non succedeva dalla fine della dittatura, nel ’90: vuol dire che la gente non ha più paura”.


Alberto Gamboa, ex direttore del Clarin, ha detto che in Cile gli orrori non sono stati puniti: torturati e torturatori del regime si ritrovano insieme al supermercato.

“E’ vero. Questo significa che la legge non è uguale per tutti. L’11 settembre di ogni anno, anniversario del colpo di Stato di Pinochet nel ’73, ci sono ancora mogli, madri e figlie che scendono in strada portando sul petto la foto di un marito, di un figlio o di un padre scomparso per mano della dittatura. Uno dei tanti desaparecidos”.