LA REPUBBLICA - "Sono stato a bordo del treno da così tanto tempo, che ho paura che il mio corpo abbia un immediato collasso, se scendo". Così dice sir Alex Ferguson, il mitico allenatore del Manchester United, sulla cui panchina siede da ventitré anni, apparentemente senza intenzione di cederla ancora ad altri. Ma il burbero scozzese si rende conto di non potere essere eterno: "So che sto giocando i calci di rigore della mia vita professionale di coach", ammette. A quasi 68 anni, i "tempi regolamentari" e pure i "supplementari" della sua carriera sono già finiti: restano i penalty, e quelli non possono durare molto. Forse un'altra stagione, al massimo un paio, sembra dire Ferguson: non molto di più. Poi toccherà a un altro occupare il suo posto e gestire la sua eredità.
A quasi 68 anni, i "tempi regolamentari" e pure i "supplementari" della sua carriera sono già finiti: restano i penalty, e quelli non possono durare molto. Forse un'altra stagione, al massimo un paio, sembra dire Ferguson: non molto di più. Poi toccherà a un altro occupare il suo posto e gestire la sua eredità.
"Quando ho compiuto 60 anni", racconta Ferguson, in un'intervista con l'Equipe ripresa stamane dal quotidiano Sun di Londra, "mi sono chiesto se non fosse venuto il momento di dire basta e ritirarmi. L'ho quasi fatto. Ma mi sono ben presto reso conto, insieme alla mia famiglia, che sarebbe stato un errore. Oggi, in effetti, ho paura di andare in pensione. Sono stato sul treno così a lungo che temo che il mio sistema nervoso non regga, quando scendo. Sicché ho deciso di non pormi più quella domanda".
Ciononostamte, l'allenatore dei Red Devils, con i quali ha vinto decine di trofei tra campionato e coppe, ha stabilito una serie di regole per decidere quando sarà tempo di lasciare. "Tre cose possono convincermi a fermarmi. La prima è la mia salute: cinque anni or sono mi è stato inserito un pacemaker, ogni estate ho un check-up col mio medico e valuto la situazione. La seconda è se non ricavassi più alcun piacere dal mio lavoro. E la terza è se sentissi di non avere più la forza di affrontare nuove sfide". Come che sia, conclude, "oggi so di stare giocando i calci di rigore della mia carriera di coach. Lo so bene. Il resto è una decisione che verrà preso fra me e me".
Figlio di operai di Glasgow, nell'intervista Ferguson ribadisce l'importanza dei valori appresi da bambino: umiltà, duro lavoro, spirito di sacrificio. "Appartenere alla classe operaia significa vedere intorno a sé dei beni e del lusso che non puoi permetterti", dice. "I miei giocatori viceversa possono permettersi tutto quello che vogliono con i soldi che guadagnano, ma io faccio in modo di ricordare loro che il successo viene dal lavoro. Cerco di toccare il loro cuore, di far loro capire che solo lo spirito di solidarietà e di gruppo li ricompenserà delle fatiche. Certo occorrono anche il talento e la tecnica, ma la cosa più importante è lo spirito di sacrificio. Preferisco un giocatore che può avere una giornata storta ma lavora come un pazzo, a uno che ha un talento più naturale ma non si impegna abbastanza".
Il suo giocatore ideale: Roy Keane, che inizialmente "forse non aveva il potenziale necessario, eppure col suo impegno è diventato un classico giocatore del Manchester United". E un altro esempio è Cristiano Ronaldo: "Aveva il talento naturale, ma più di tutto ha la determinazione mentale a migliorare. Per questo, in tre o quattro anni, è riuscito a diventare il miglior giocatore del mondo".




