Fuori dalla Borsa, c'è vita per chi di pallone si nutre. Probabilmente, una vita migliore. Di certo, la grande corsa alla quotazione non ha dato gli effetti sperati. Anche qui il calcio italiano è arrivato per ultimo e per ultimo si sta ritirando. L'idea del collocamento si era sviluppata, soprattutto in Gran Bretagna, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso: l'obiettivo era affiancare alle entrate tradizionali un'ulteriore fonte di capitale di rischio, con maggiore facilità quindi di realizzare operazioni di finanza straordinaria (quali gli aumenti di capitale) e possibilità immediata di reperire risorse da utilizzare per investimenti strutturali. In realtà, non furono poche le società che grazie ai ricavi dell'offerta pubblica di azioni riuscirono a farsi lo stadio che ancora non avevano. Tra maggio 1998 e dicembre 2001 Lazio, Roma e Juventus fecero il grande passo. E se va detto che oltre la metà dei proventi dell'offerta finirono direttamente nelle tasche dei proprietari, e non nelle casse delle società, bisogna ricordare che tutte e tre le squadre riuscirono a vincere il campionato proprio nella stagione successiva al collocamento. Probabilmente anche perché le somme rimaste a disposizione dei club furono utilizzate non per investimenti a medio e lungo termine, ma per acquistare subito sul mercato calciatori in grado di fare la differenza. Delle 26 società oggi in Europa sono quotati 14 club in tutto: oltre ai due italiani, quattro turchi (Galatasaray, Besiktas, Fenerbahce e Trabzonspor), due portoghesi (Benfica e Sporting), un francese (Lione), un tedesco (Borussia Dortmund), uno scozzese (Celtic), un danese (Brondby), un olandese (Ajax) e il Manchester United quotato a Wall Street. Di questi soltanto Dortmund e Juventus hanno rating di sostenibilità appena accettabili.
(gasport)