José Mario dos Santos Mourinho Felix, noto semplicemente come José Mourinho, non è un allenatore di calcio. È una condizione dell’animo. Dentro cui i tifosi della Roma avevano un tremendo, urgente bisogno di entrare. Può apparire paradossale: ma quello che accadrà stasera nell’Arena Kombëtare, questa bomboniera di stadio, è un dettaglio.
L’uomo chiamato Special One, con attitudini da sciamano, che parla sei lingue (portoghese, inglese, italiano, francese, spagnolo e catalano), addosso 25 titoli vinti in carriera, a Roma è riuscito a oltrepassare la cronaca, già leggendaria, per entrare in una dimensione spirituale. Adesso, chiaro: gli tocca dissimulare. Ma lo fa con un mestiere pazzesco.
Per capirci: ci tocca sentirlo dire che «la finale è il giorno dei giocatori. Noi allenatori possiamo aiutarli a leggere la partita». All’improvviso, decide brutalmente di abbassare ogni aspettativa che lo riguardi, e caricare tutto sulle spalle della squadra. Gli chiedono: cosa può fare lo Special One per vincere un match speciale? «La storia dello Special One è vecchia. E poi io non credo nella magia». Eppure continua ad avere quella sua luce efferata dentro gli occhi.
Per questo è chiaro che la dimensione non è quella dei risultati e dei bilanci. C’è una complessità struggente, nella storia tra Mou e i tifosi della Roma. Qui siamo dentro la ridefinizione del significato di amore per una squadra e, soprattutto, per il suo allenatore. Lui, molto gentilmente, e senza tirarsela: «Siamo di fronte a un fenomeno sociale irrazionale». Ma forse è solo la voglia collettiva di fidarsi d’un miraggio. E di credere a uno che te lo indica.
(Corsera - F. Roncone)