Di per sé la plusvalenza non è il male assoluto, tutt’altro. Nel conto economico di una società rappresenta una componente positiva, cioè il guadagno dalla vendita di un calciatore, inteso come bene aziendale, derivante dalla differenza tra il prezzo di cessione e il costo residuo a bilancio. Un’attività, questa, che storicamente è stata appannaggio soprattutto delle cosiddette provinciali e che, negli ultimi anni, ha accomunato grandi e piccole, tutte bisognose di utilizzare la leva del player trading per far quadrare i conti e alimentare i sogni di gloria. Qual è il confine tra una plusvalenza reale e una fittizia? Molto labile. Questo perché stiamo parlando di calciatori, la cui valutazione è soggetta a una serie di variabili aleatorie. All’epoca del processo sugli scambi tra Chievo e Cesena, nel 2018, i giudici lo scrissero chiaramente. Visto che le plusvalenze contribuiscono, spesso in misura decisiva, al rispetto dei criteri economico-finanziari richiesti ai club ai fini dell’iscrizione alle competizioni, il problema di una sopravvalutazione artificiale dei calciatori si pone all’atto dei controlli federali. L’attuale sistema di norme non pone alcun paletto, non coglie alcuna differenza tra una plusvalenza e un’altra. Da tempo le istituzioni studiano correttivi per arginare il fenomeno. Il presidente federale Gravina aveva dato l’input affinché la Covisoc potesse segnalare agli organi di vigilanza e alle società di revisione quegli scambi di giocatori senza finanza dai corrispettivi anomali. Da qui è nata la relazione della Covisoc su cui si è basata la procura Figc per imbastire l’attuale processo.
(gasport)