C'era una volta lo zero a zero. Risultato perfetto secondo Annibale Frossi, oro olimpico a Berlino nel 1936 e allenatore, fra l'altro, di Torino, Inter e Napoli. E specchio, per Gianni Brera, del dna del nostro calcio. Nei ruggenti anni Ottanta, quando i difensori erano spesso rudi e le provinciali scavavano solo trincee, le partite senza reti scandivano le domeniche: nel 1988-'89 se ne contarono addirittura 58 in 306 partite, poi la percentuale cominciò ad abbassarsi. Oggi la Serie A è ultima in Europa per numero di zero a zero. Soltanto otto in ventidue giornate, con l'ultimo tra Atalanta e Inter più forte d'ogni pregiudizio: non più sinonimo di noia, al contrario spot di calcio aperto e aggressivo. La new age in panchina non riassume però la metamorfosi, cui il calcio, dall'interno, offre letture parallele, in gran parte legate a innovazioni tecnologiche e riforme. La Var, per esempio, che scova "rigorini" altrimenti sfuggevoli e così apre varchi in partite soffocate, le cinque sostituzioni che ricambiano l'energia dei 90' e garantiscono azioni ficcanti fino all'ultimo, i palloni d'ultima foggia che a sentire chi da un po' bazzica il campo disegnano traiettorie più veloci e potenti. Senza dimenticare la più diffusa spiegazione, ovvero l'abbandono della scuola difensiva: generazioni allevate con le diagonali e non con le marcature, educati con i piedi ma meno feroci del tackle.
(La Stampa)