Gli americani sono tutti con il naso all'insù, anche i più cinici. A Roma sono già pazzi per Friedkin, l'aviatore, l'eroe di Indipendente Day. Bastava che dal firmamento sparisse Pallotta, poi sarebbe andato bene tutto, anche il fondo del Kuwait. Dan accenderà l'avvenire, ma al primo giorno ha già fatto tre errori: ha definito il club "iconico" («Fallo pure icubico, ma fallo grande», è la risposta che circola tra i tifosi), ha annunciato di non vedere l'ora di immergersi nella famiglia della Roma (un bagno tra i coccodrilli no?) e pensato di mettere a presidio dell'operazione il figlio, fin qui esperto di poker sportivo, basket e marketing (ogni imprenditore ha un punto debole: la generazione a seguire). E così anche tutti gli altri imprenditori, che, chi prima chi dopo, si sono avvicinati al calcio italiano, vendendo sogni. Nessuno che arrivi portando con sé uno studio del modello Percassi, dell'organizzazione e del vivaio dell'Atalanta. Tutti hanno però il progetto del nuovo stadio. Contano: l'emozione suscitata, l'affrancamento dal presente, l'assenza di un plausibile limite
(la repubblica)