LA STAMPA (M. FELTRI) - Ho sempre amato il calcio, ne ho amato l’arte, la bruciante intelligenza di un passaggio imprevedibile, la furia agonistica, tutto il parossismo di una partita, cioè la lotta per la vita e per la morte, l’epica omerica, il trionfo e la tragedia separati da un filo d’erba, e l’ho amato nelle minuzie più ignobili e tribali, quelle che hanno a che vedere col tifo (forza Toro!), dunque l’opposto della razionalità e della giustizia, ho vissuto per quaranta e passa anni le estati senza campionato come un’assenza dolente, mi sono abbeverato alle inverosimili notizie di calciomercato per il gusto di sognare gratis, ho aspettato le amichevoli d’'agosto che finiscono venti a zero per calibrare le mie aspettative su una dolce illusione, ho accolto l’arrivo della prima liberatoria giornata come il fumatore che si accende la sigaretta dopo sei ore in aereo. Ma adesso no. Non mi importa. Non ne ho voglia. Mi sembra tutto così distante. Le prescrizioni profilattiche per riavviare la giostra, stadi vuoti, divieto d’abbraccio, distanza di sicurezza sul corner - roba da Inail, con tutto il rispetto - sono un’aggravante mica da ridere, ma solo un’aggravante. Sebbene lo abbiano caricato di sponsor, anticipi e posticipi per ottimizzare i ricavi, verifiche millimetriche alla quarta inquadratura, questioni di Stato, nonostante tutto questo resta un gioco. E non è aria. Poi lo so, il calcio è un’industria, ci girano soldi che danno stipendi, non semplicemente alle star ma a migliaia di lavoratori che devono mettere insieme il pranzo con la cena. Quindi che riparta, va bene, indiscutibile. Solo che, come quel famoso scrivano, preferirei di no.