Sabatini senza filtro: «Al derby del 26 maggio ho pensato di morire. A Bologna la mia 'bolla di felicità'»

21/09/2019 alle 15:18.
sabatini-mezza-figura

IL FOGLIO (G. BURREDDU) - Cominciò con l’odore di cioccolata e tabacco: suo padre tornava dal turno alla Perugina e lui lo abbracciava mescolando dentro tutti quegli aromi. “Papà fumava le Esportazione senza filtro, le nazionali col pacchetto verde, e quando le spegneva all’ultimo respiro, per non risparmiare nemmeno quel mezzo centimetro, rimaneva del tabacco nel portacenere. Allora io rubavo le cicche, le rompevo, recuperavo il tabacco e lo mettevo nei pezzi di giornale, li arrotolavo e andavo a fumarmeli in bagno. La prima sigaretta fu un pezzo di cartone, in garage. Lo accesi, lo tiravo come una fisarmonica, venivano certe folate aspre che mi girava la testa, ma provavo un’eccitazione enorme, uno stordimento bellissimo”.

Nel nostro immaginario ha la sigaretta in bocca, la tiene fra due dita mentre pensa altrove, come nel quadro che tiene nel suo ufficio di Roma. Nel quadro fumano tutti, Van Gogh e Rita Hayworth, Mastroianni e Audrey Hepburn, Marlon Brando e ovviamente . Però Walter - oggi coordinatore delle aree tecniche del e del Montréal Impact di Joey Saputo - le sigarette non può toccarle più, “ho fatto una promessa a mio figlio, non posso disattenderla”, racconta al Foglio Sportivo.

Il mercante del talento è ancora l’uomo che succhia l’esistenza in ogni sua forma, in ogni suo momento. Dall’odore di cioccolata e tabacco di suo padre, a un certo punto il fumo è diventato persino di più, la sua misurazione del mondo, di tutto, delle sue giornate, del tempo, delle sue alterazioni sensoriali, di una qualche gravità momentanea, del calcio. E dunque la sua condanna. “Giocavo in B, il venerdì smettevo educatamente di fumare perché la domenica c’era la partita, quando andavo in ritiro mi mettevano in camera con un senior, Vanara, che aveva dieci anni più di me. Tossiva come un bolso tutta la notte e un giorno mi fa: “Tanto lo so che fumi, tira fuori le sigarette, testa di cazzo”. Una volta il rapporto tra i giocatori  grandi e i giovani era diverso, ti mettevano sotto, gli portavi la valigia. Tirai fuori un pacchetto di Muratti. “Queste non so’ sigarette, le Marlboro devi fumare”. La volta dopo per fare bella figura mi presentai con quelle, lì mi sono condannato a morte”.

E da questa dolcissima, invidiabile celebrazione del fumo che ha imparato a vivere, a resistere, perfino a sognare. Fumava tre pacchetti al giorno, la scorta la teneva nei cassetti, nei ripostigli, sulle mensole. “Ogni sigaretta per me ha rappresentato qualcosa. Avevo quella celebrativa, lenta, di una voluttà incredibile, e mentre la fumavo rivedevo i fotogrammi di una partita nella testa. E poi c’era quella consolatoria, fumata disperatamente ogni volta dopo una sconfitta. O quella introduttiva del mattino con il caffè. Quella immaginifica, quando non hai niente da fare e pensi a un grande campionato o a una bella donna”. Quando stava alla Roma teneva la porta del suo ufficio aperta giorno e notte, e c’era sempre una bottiglia di champagne, di Berlucchi o di Ferrari. “Io sono un festaiolo, mi trovo bene con la mia gente, sempre pronto a cazzeggiare perché il calcio ha un lato divertente. Non quando perdi, quando perdi non c’è niente di divertente. Ma il calcio non è drammaticità”. Da allora è cambiato tutto, “sono cambiate le mie frequentazioni, i miei ristoranti, è cambiata tutta la mia vita. Quando sto in mezzo alla gente a un certo punto mi folgora l’idea delle sigarette, allora sciolgo la seduta, mi alzo e me ne vado”.

Quello che non è mai cambiato è l’idea del calcio, “per quelli della mia generazione Coverciano era Camelot, quando ci sono andato la prima volta pensavo che non esistesse, i pochissimi fotogrammi che avevo visto erano in bianco e nero, quando mi hanno aperto il cancello ho pensato mo’ svengo. Ero stato selezionato come miglior calciatore giovane della mia categoria in Umbria, nei Nagc, e invece fu la mia più grande delusione calcistica, quando ho sentito che non ero tra i primi tre qualificati di quella infornata di gioca tori mi si è spaccata la bottiglia dentro, sono andato in frantumi”. Calcio, sempre calcio, “che non capisco come possa non essere fumoso, può esistere un direttore sportivo che non fuma? O un allenatore? Qualche giorno fa ho chiamato Sarri. "Non ti dico di smettere di fumare, non te lo posso dire proprio io, però rallenta", gli ho detto, "non ti condizionare tutta la vita futura". "Ma come cazzo faccio?", mi ha risposto "Io non lo so, ho smesso anche di prendere il caffè perché non posso fumarci la sigaretta". Zeman era uno che mi stava dietro, quando veniva nel mio ufficio nessuno si azzardava a entrare, c’era una cortina di fumo. Ma come uno possa allenare senza fumare non l’ho mai capito”.

Lo hanno chiamato santone, pazzo, scellerato, genio, guru, illuminista, edonista, alchimista del pallone, ma è solo un uomo accerchiato dai sentimenti. E il calcio glieli ha amplificati. “Ho fumato più sigarette per che per tutti gli altri: passai la notte al telefono con il direttore sportivo del Cagliari, con Cellino dall’altra parte che spaccava la trattativa, ma sentivo che la voleva fare. Finì alle cinque del mattino, fu dura e fumosa. La sigaretta più dolorosa è stata per il derby Lazio-Roma di Coppa Italia all’Olimpico, ho pensato di morire, se non avessi avuto le sigarette sarei morto realmente”.

Invece tutto in è vita, vita esagerata, amata, strapazzata, quella vita che ti afferra e ti scuote, ti squassa, ti stordisce. Così forte che nemmeno la morte è riuscita a portarselo via, un anno fa. “Mi sono sentito male a casa, ho avuto la certezza di morire. Ma non mi ricordo se ho avuto paura. Sentivo la dottoressa nell’ambulanza che diceva non ce la facciamo, non ce la facciamo, e io cercavo di darle dei calci, stai zitta, e poi mi giravo verso il mio dottore e chiedevo: “Ma è vero?”, e lui mi rispondeva: “No, non stasera, non adesso”.

Se Roma gli è entrata dentro con tutta quella intensità, a sta cercando un’altra dimensione, “una bolla di felicità” la chiama lui. Prima che cominciasse il campionato è salito su un palcoscenico in mezzo a Piazza Verdi, la piazza del teatro, assieme al suo amico Giorgio Comaschi, hanno fatto uno spettacolo letterario e lui ha letto un brano di Pasolini. Ha tossito un po’, il fiato era corto. Ha chiesto scusa al pubblico, ma si vedeva che si divertiva. per è una sorta di regressione all’infanzia, a un calcio antico, che ricorda negli slogan e nelle trovate di Gino Villani, uno dei tifosi più coloriti della storia rossoblù. “A ho trovato una grandissima organizzazione sportiva. Qualsiasi cosa sia stata detta qui, in passato, io posso dire quello che ho visto e quello che ho visto io vale: Bigon e Di Vaio hanno una maniera di fare il calcio molto evoluta, e io sono un fruitore finale del lavoro che hanno fatto loro due. Skov Olsen, Tomiyasu li avevano già presi, io ho solo avallato le scelte. Se il farà grandi cose non sarà stato merito mio, ci sono grandi presupposti per cui questa cosa possa avere luogo, perché si realizzi questa mia necessità di essere felice”.

Prima si perdeva in una nuvola di fumo, adesso si accontenta di una bolla di felicità. “Mihajlovic è un soggetto difficile da replicare. A Verona, quando è uscito la prima volta dall’ospedale, l’ho trovato in questo stanzone, su una sedia, da solo. Entro e mi fa: vuoi la sedia? Ma come, tu che non stai in piedi... Provo un desiderio fortissimo di poterlo aiutare, assecondare, cosa che farò e che faremo tutti. Della vita ho capito parecchie cose, non tutte, ho capito che bisogna vivere lealmente e con generosità. Trascuro di dire l’onestà che per me non è una qualità, è la normalità. Alle sigarette ci penso sempre, è un pensiero fisso, anche stamattina mi sono svegliato alle 4. Oh, se ci fosse mia moglie si arrabbierebbe molto per questa chiacchierata. Speriamo che non legga il Foglio”.