La Roma senza bandiere finisce per allargare il fronte del no allo stadio. Escono di scena i frontman di #famostostadio, l'hashtag coniato dal marketing del club per coinvolgere la città nell'assalto a Tor di Valle: Francesco Totti oggi se ne va, De Rossi ormai è storia. E i tifosi giallorossi protestano, anche sui social, più che disponibili a mollare il progetto stadio pur di liberarsi del presidente James Pallotta. Cosi, per effetto, in Campidoglio cade anche l'ultima resistenza al possibile siluramento dello stadio della Roma, da sempre maldigerito dalla base eppure a suo tempo spinto dalla maggioranza grillina e dai vertici nazionali del M5S essenzialmente per due motivi: prima di tutto per non perdere il feeling con la città e la spinta dell'elettorato romanista; secondo, per permettere a Raggi di portare a casa un risultato concreto. Mercoledì una nuova riunione tecnica al dipartimento Urbanistica dell'Eur servirà a fare il punto sulla Convenzione urbanistica, ovvero il contratto tra i proponenti e l'amministrazione. L'ultimo summit ha registrato una brusca frenata, quasi un'inchiodata. E, dalle premesse, anche nel prossimo vertice sarà muro contro muro. Si litiga sui soldi extra e sulla modalità «vincolata» dell'eventuale erogazione da parte dei proponenti, sulla spartizione dei futuri proventi del parcheggi, sugli oneri per gli espropri nell'opera di unificazione di via Ostiense con via del Mare, sul concetto di «contestualità» tra opere pubbliche e private: il M55 pretende l'apertura dell'impianto non prima che ponti e ferrovie siano ultimati anche se questo potrà comportare tempi d'attesa biblici; la Roma, che ha la necessità finanziaria di patrimonializzare il prima possibile, spinge perla posa del primo mattone e, soprattutto, per svincolarsi dalle lungaggini della burocrazia legata ad appalti pubblici che spesso vedono coinvolti più enti (la Roma-Lido, ad esempio). L'intesa non c'è, lo stallo sì.
(corsera)