IL MESSAGGERO (V. ERRANTE) - Marcello De Vito sapeva come procedere per assicurarsi l'approvazione dei progetti che gli stavano a cuore, quelli dei suoi clienti. E quando il via libera dell'Assemblea capitolina era a rischio, per le posizioni dell'ala più intransigente del Movimento Cinquestelle, riusciva a bypassarla, orientando la giunta e garantendo un voto favorevole. Così, per il gip Maria Paola Tomaselli, che tre giorni fa ha arrestato il politico, sarebbe accaduto a settembre 2017 per il via libera al progetto Mercati generali dei fratelli Toti, che hanno pagato una parcella di 110mila euro all'avvocato Camillo Mezzacapo, sorprendendosi che l'approvazione non fosse passata dall'aula. Una parte di quei soldi sono finiti nella Mdl, la «cassaforte - scrive il gip - nella quale occultare gli illeciti profitti della corruzione».
L'INFLUENZA - L'ex presidente del Consiglio comunale sarebbe riuscito ad esercitare la sua influenza sull'assessore all'Urbanistica Luca Montuori attraverso i rapporti con l'allora capogruppo del Movimento Cinquestelle, Paolo Ferrara, e grazie all'intervento dell'ex sindaco ombra, Luca Lanzalone, ormai a processo per corruzione. Gabriella Raggi, la caposegreteria dell'assessore, indagata e perquisita tre giorni fa, è stata interrogata a lungo ieri dai pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli, che hanno convocato in procura, come testimoni, anche Donatella Iorio, presidente della Commissione Urbanistica e Alessandra Agnello presidente della Commissione Lavori Pubblici. L'attività di De Vito sarebbe andata avanti fino alla vigilia degli arresti, per nulla scoraggiata dalla bufera dell'inchiesta Parnasi: il 12 febbraio, l'oramai ex presidente del consiglio comunale incontrava Giovanni Naccarato, nominato amministratore di Eurnova - la società di Parnasi che avrebbe dovuto realizzare lo stadio della Roma - dopo gli arresti di giugno.
BYPASSARE IL CONSIGLIO - È il 22 gennaio 2019 quando Pierluigi Toti, parlando del progetto di riqualificazione degli ex Mercati Generali, spiega come abbia ottenuto un iter inaspettato e rapido: «Abbiamo avuto un'accelerazione urbanistica tra ottobre e dicembre che non pensavo neanche io, per cui siamo arrivati», dice. Un'accelerazione dovuta - aggiunge il gip - «al mancato passaggio della pratica in Consiglio e all'adozione della decisione da parte della Giunta», dove gli equilibri erano cambiati a febbraio 2017, dopo le dimissioni del precedente assessore all'Urbanistica, Paolo Berdini, e dunque fosse più facile ottenere il via libera.
DUPLICE INTERVENTO - «L'intervento di De Vito - si legge nell'ordinanza - è stato quindi duplice: da un canto di carattere omissivo, non avendo egli rivendicato la decisione all'aula e, dall'altro, fattivo, avendo egli speso la propria influenza interloquendo con i soggetti (Lanzalone, Ferrara e Montuori) che avrebbero potuto incidere sulla situazione per indirizzare la decisione della Giunta» Sarebbe spettato al Consiglio occuparsi del progetto, visto che dall'ultima approvazione era intervenuta in commissione una significativa variante. Spiega il gip: «Vi erano forti insistenze da parte dell'ala più radicale del Movimento, che osteggiava l'approvazione dell'intervento di riqualificazione, affinché la decisione fosse nuovamente rimessa al Consiglio».
LA CASSAFORTE - La cassaforte, dove sarebbero finite le tangenti divise tra De Vito e Camillo Mezzacapo è la Mdl srl. La società dove l'avvocato raccomandato agli imprenditori dal politico metteva parte delle sue parcelle, ossia la quota destinata al presidente del Consiglio comunale. Nata nel 2016, la Mdl è controllata da due società - il cui fatturato è all'esame dei carabinieri - che fanno capo alla famiglia del legale finito in manette. L'amministratore è Sara Scarpari, segretaria di Mezzacapo. Ma nella compagine sociale compaiono anche la moglie del legale, Veronica Vecchiarelli, e la mamma, Paola Comito, finita sotto inchiesta per false fatturazioni. Il 10 per cento, invece fa capo a un commercialista, Gianluca Laconi. Indagata anche l'avvocato Virginia Vecchiarelli, cognata di Mezzacapo, utile come prestanome per non comparire in caso di consulenze sospette. Per il giudice l'esistenza della «cassaforte dà la misura della professionalità dagli indagati in tutte le fasi che caratterizzano le operazioni illecite. Dal primo contatto con gli imprenditori fino al momento percettivo dell'utilità». Così ai soci viene contestato anche l'autoriciclaggio.