IL TEMPO (E. MENGHI) - Sono stati e sono presidenti diversi, con in comune un club da gestire e poco altro. Berlusconi e Pallotta vivono il calcio in maniera opposta, uno più burattinaio e l’altro delegante, uno con 31 anni di storia al Milan e l’altro che prova a farla a Roma. Ma lontano, dall’altra parte dell’Oceano. Ed è proprio questa distanza ad essere finita più volte sotto la lente della critica: «Io cercavo di essere presente prima di ogni partita per incentivare i ragazzi e davo anche il numero di gol da segnare. Una squadra deve essere come una famiglia, il presidente deve essere un padre e un fratello maggiore e tutti devono sentire il suo stimolo. Io sono stato il presidente della squadra di calcio più vincente a livello mondiale, Pallotta segua il mio esempio», il consiglio arriva direttamente da Silvio Berlusconi, che anche dopo aver lasciato le redini del club non ha mai smesso di dispensare suggerimenti all’allenatore di turno: «Il modulo migliore è due punte con una mezzala alle spalle», ecco servito Gattuso. Quante volte Pallotta ha fatto la formazione a Di Francesco? Mai. Anzi, nemmeno gli piaceva il calcio prima di comprare la Roma.
A Trigoria non avvertono assolutamente come un problema l’assenza del proprietario, che ha schierato i suoi uomini nella dirigenza e si affida a loro. Non può avere il polso di un ambiente che conosce poco, sicuramente, ma da Boston, o da Londra dove spesso va per incontri di lavoro sulla Roma, si tiene aggiornato su tutto, anche grazie al collaboratore Zecca, presente più spesso di lui. «Un presidente assente, Gabrielli divide e nessuno fa niente», recitava uno striscione di protesta in curva ai tempi delle barriere, ma è stato il numero uno americano ad incontrare il capo della polizia spingendo per la rimozione. Quando serve, interviene personalmente, altrimenti si limita a mettere i soldi (98 milioni negli ultimi 15 mesi) e le persone giuste per far funzionare l’azienda Roma.