Ho sessantuno anni. Cinquantacinque di memoria romanista: due scudetti, nove coppe Italia, un paio di Supercoppe, una finale di Coppa dei Campioni, una finale di coppa Uefa, una Coppa delle Fiere che poi altro non è che l'immagine ormai quasi sbiadita ma non scolorita di un bambino con la bandierina giallorossa in mano, felice di festeggiare la prima squadra italiana capace di vincere in Europa. E poi, e poi, una serie quasi infinita di delusioni, vissute comunque con l'indipendenza del tifoso giallorosso e che non hanno mai avuto la forza di intaccare il sentirmi romanista nell'anima perché chi tifa Roma non perde mai. Ecco, ieri, quando poco prima delle venti, a un'ora dalla sfida con il Qarabag che dopo ci avrebbe portato, da vincitori del girone, negli ottavi di Champions, è arrivato il definitivo sì allo Stadio, insieme a tutti gli amici della meravigliosa redazione di questo giornale, romanisti come e più di me se mai fosse possibile, ho provato un'emozione che vale mille scudetti. [...]
E la prima immagine che ha illuminato i miei occhi, rigati da una lacrima d'amore, è stata quella di un Presidente. Il Presidente che ha cambiato la nostra storia: l'Ingegner Dino Viola. Il primo a volere la nostra Casa, il nostro Stadio. [...]
Ecco, questo sì allo Stadio della Roma, a Casa nostra, Pallotta capirà, è anche per lui, l'Ingegnere, con al fianco l'eleganza e il sorriso di donna Flora, i figli Ettore, Riccardo e Federica. [...]
(Il Romanista - P. Torri)