ILPOSTICIPO.IT (A. CIARDI) - L’Italia vende. Vende le compagnie di bandiera, gli storici marchi della moda famosi in tutto il mondo e quelli degli impareggiabili prodotti alimentari. A questa regola si adegua il calcio. I nostri club vendono. Una volta si piegavano le società piccole, quelle di provincia, che si ritrovavano fra le mani un giovane dal radioso futuro e sapevano di non poterselo godere per più di due anni, stesso lasso di tempo di durata degli stranieri arrivati in sordina e poi diventati craque di mercato. Oggi a vendere sono i top club. Cessioni controllate, in quanto causate da esigenze di bilancio. Alla faccia dell’agognato secondo posto, che negli ultimi anni non ha mai messo al riparo da partenze eccellenti le tre squadre che si sono battute per la piazza d’onore alternandosi alle spalle della Juventus.
Anche i bianconeri vendono. Ma per quel maquillage tipico di chi vincendo fa digerire meglio la dipartita del big di turno sia al tifoso che ha ancora negli occhi l’accoppiata scudetto-coppa Italia, sia all’allenatore che ha totale garanzia sulla sostituzione del campione che può salutare Madama. Per questioni anagrafiche (Pirlo), per impossibilità del prosieguo della gestione oltre che per soldi incassati (Vidal), o perché programma l’arrivo di un top player e ne vende un altro a cifre esagerate (Pogba allo United per arrivare a Higuain). Purtroppo per le inseguitrici, la Juventus anche alla voce cessioni da qualche anno merita sempre un discorso a parte.
IL RISANAMENTO ROSSONERO
Quando la squadra di Conte strappò lo scudetto al Milan detentore, i rossoneri erano al canto del cigno. Berlusconi si stava facendo convincere che non era possibile riproporre un modello di società inimitabile per oltre venti anni. La politica, gli affari, l’età avanzata, le vicissitudini di varia natura: l’uomo che ha cambiato per sempre il calcio italiano nel 2012 si preparava ad abdicare. Il 31 dicembre 2011, il Milan con lo scudetto sul petto certificava il bilancio registrando un monte ingaggi da 206,5 milioni di euro, record assoluto nella storia del club, secondo in Italia all’epoca solamente all’Inter di Mourinho, quella del Triplete, che toccava, due anni prima, quota 236 milioni. E il Milan accumulava un triennio di perdite pari a 146,9 milioni di euro, nettamente distante dalla soglia massima del famoso famigerato break even previsto dal Fair Play Finanziario. Bisognava contenere i costi.
Lo ammetteva Adriano Galliani, che ai soci del club non nascondeva la preoccupazione causata dal taglio ai costi di gestione che rischiava di comportare un abbassamento di competitività. Così fu. E preso atto del cambio della guardia in cima alla classifica, il Milan iniziò a scrivere la parola fine sull’epopea berlusconiana. Secondo posto e cessioni. Quelle dei senatori, del Milan degli invincibili. In un solo colpo salutarono Gattuso, Inzaghi, Seedorf, Nesta. I tifosi rossoneri non sapevano per chi piangere di più. Un’emorragia di uomini vincenti giunti a fine corsa. A cui aggiungere, per evidenti questioni economiche, i due top player da sacrificare sull’altare dell’austerity. A distanza di poche settimane il Milan secondo in classifica vendeva al Paris Saint-Germain Zlatan Ibrahimovic e Thiago Silva. 62 milioni di euro. Praticamente la stessa cifra che la Champions League della stagione successiva (eliminazione negli ottavi di finale), avrebbe garantito. Ma in quel momento il secondo posto non garantì la permanenza di elementi che dovevano fare la differenza più per le casse che per Massimiliano Allegri.
IL NAPOLI SALUTA IL MATADOR
Stagione 2012-13, il calcio italiano prende atto della grande novità: la Juventus non è un incendio circoscritto. Fa terra bruciata attorno e impedisce alle rivali di avvicinarsi a uno scudetto che ha intenzione di moltiplicare fino all’abbattimento di ogni record. Nove punti di vantaggio sul Napoli di Mazzarri, all’ultimo giro sulla panchina azzurra. Il Napoli l’anno precedente ha venduto Lavezzi al Paris Saint-Germain, la linea guida imposta e ostentata da Aurelio De Laurentiis non ammette deroghe: produrre utili, tenere i conti in ordine per un club risorto dalle ceneri del fallimento che ha saputo riprendersi il posto che gli compete, senza mai fare il passo più lungo della gamba. E allora il +8 milioni di utili (in ribasso rispetto al bilancio dell’anno precedente a causa della mancata partecipazione alla Champions League), si trasformerà in un +12 milioni anche grazie alla cessione al Paris Saint-Germain (sempre quelli del Qatar, che in tre sessioni estive di mercato strappano alla Serie A i big di Milan e Napoli) di Edinson Cavani. 67,9 milioni di euro.
Napoli saluta 104 gol in 138 partite, coppe comprese, 29 nel campionato del secondo posto. Cavani chiede soldi che il Napoli non può concedergli (a Parigi il primo contratto lo firma a 10 milioni di euro a stagione). Il club ritiene che non potrà ripetere quei numeri nella stagione successiva, e allora via al rinnovamento. Ecco Higuain, ecco Mertens. Faranno le fortune della squadra, ma in quel momento il Pipita è un esubero del Real Madrid, il belga un giovane rampante ma non una certezza. 38 milioni più 9,5. A cui aggiungerne 11 spesi per Albiol. Il Napoli secondo in classifica finanzia il mercato in entrata vendendo il calciatore più importante.
LA ROMA SACRIFICA BENATIA E SCARICA ROMAGNOLI E BERTOLACCI
2013-14, la Juventus non dà scampo. Alle sue spalle si riaffaccia la Roma, reduce da un biennio, il primo con marchio americano, disastroso. Ecco Rudi Garcia, ecco una squadra pronta e mai più una squadra prototipo, a Trigoria capiscono che i verbi vanno coniugati al presente indicativo, il futuro può attendere. Fra i calciatori più pronti ecco Medhi Benatia. Arriva dall’Udinese, è costato 13 milioni di euro. Gioca da podio della categoria difensori centrali. A maggio inizia un valzer di dichiarazioni, scendono in pista il Direttore sportivo della Roma, Walter Sabatini, l’agente del calciatore, Moussa Sissoko, il calciatore stesso, attraverso una lunga intervista alla Gazzetta dello Sport. Benatia in quei giorni indossa la maglia rossa del Marocco, non indosserà più quella della Roma e passerà direttamente a quella del Bayern Monaco. 26 milioni di euro più 4 di bonus.
La Roma che non ha intenzione di allontanarsi di un millimetro dalla politica che porta all’utile di bilancio, la Roma che è sotto osservazione UEFA per il Fair Play Finanziario, non ha incedibili. A maggior ragione se il rosso di esercizio chiuso al 30 giugno è pari a 38,55 milioni di euro. Perché la stagione precedente (annus horribilis 12-13) si era conclusa senza i soldi della Champions League, perché il club produce pochi profitti legati a sponsor e merchandising. Per evitare di vendere un big, alle società italiane può non bastare neanche arrivare direttamente in Champions League per due stagioni consecutive. Poi riesci anche a comprare, ma alla fine della giostra il verbo vendere lo avrai coniugato, e il complemento oggetto sarà sempre al centro dei dibattiti sotto l’ombrellone.
nfatti l’anno successivo la Roma si conferma vice Juventus. Il gol nel derby di Yanga Mbiwa è il toccasana. Ma i conti devono ancora essere sistemati. E se nel frattempo il fatturato tocca quota 180 milioni di euro (52 in più rispetto all’anno prima), il saldo di bilancio è in rosso: -41 milioni di euro. Il club non nasconde ai suoi azionisti che il trading di calciatori consente al cassiere di continuare a lavorare al pareggio di bilancio, ma stavolta si fa cassa cedendo due calciatori fuori porta. Romagnoli e Bertolacci, in prestito a Sampdoria e Genoa, neanche rientrano alla base perché al termine un’ottima stagione approdano in coppia al Milan, per 45 milioni complessivi.
LA CLAUSOLA DEL PIPITA
Dopo due anni di medaglie d’argento della Roma, è la volta del Napoli, che nel 2015-16 combatte fino a febbraio con la Juventus salvo poi dover ripiegare sul secondo gradino del podio. Azzurri e giallorossi stanno oramai diventano collezionisti seriali del premio Toto Cutugno. Ma “il bilancio prima di tutto, il bilancio è sacro”. De Laurentiis appena preso il Napoli fece arrivare il fatturato a 11 milioni di euro. Oggi arriva a contare fino a 200. Una crescita costante, che passa sopra ogni velleità di rischio di impresa allettante. Il Napoli se dovesse vincere lo scudetto, ci riuscirebbe non abbandonando le linee guida del presidente. Il virtuosismo economico continuerà a vigere. Pur sapendo che spesso stride con il palmares. È vero che una clausola rescissoria non dà scampo, ma essendo formalmente esercitata dal calciatore in uscita, si può lavorare sulla sua testa per convincerlo a restare. Gonzalo Higuain un anno fa ha lasciato Napoli, le spiegazioni le diede il fratello, che parlò di progetto che non sarebbe mai stato vincente se invece di aggiungere top player si fosse ripartiti ogni volta dai giovani. Napoli secondo, via Higuain, dentro 90 milioni di euro, dentro una serie di ragazzi dal futuro radioso (Milik, Diawara, Zielinski, Rog), Napoli terzo. Higuain primo.
In questo torrido giugno la Roma saluta Salah per una cifra da incassare record dalle parti di Trigoria. L’eliminazione ai playoff di Champions dello scorso agosto ha lasciato il segno. L’anno prima aver raggiunto gli ottavi di finale aveva permesso di incassare 77 milioni di euro. L’incombente scadenza del 30 giugno non dà scampo, con tanti saluti a 29 gol e due dozzine di assist in due campionati giocati dall’egiziano.
Si obietterà che chi vende spesso lo fa consapevolmente, per filosofia e non per imposizione. O che i soldi introitati a volte finiscono tutti sul mercato, quindi non vanno necessariamente a sanare bilanci in rosso. Vero, in parte. Resta il fatto che l’equazione “vado in Champions League=tengo i più forti” finora è stata smentita dai fatti. Ed è lecito domandarsi se con un’organizzazione manageriale differente, con soldi sicuri derivanti da un indotto invece carente, lacunoso, risulterebbe possibile dare continuità tecnica ai progetti delle seconde in classifica, che in quel caso farebbero cassa con cessioni minori, mantenendo inalterata l’ossatura composta dai big, e aggiungendo coi soldi futuri della Champions League certezze tecniche per combattere meglio l’egemonia juventina. Che vende, sì, ma dopo aver vinto. In modo che anche le partenze eccellenti siano più digeribili.