LA REPUBBLICA (C. BONINI) - Con la forza che hanno solo le epifanie o le catarsi — dipende in questo caso dall’anagrafe — il rito collettivo del doppio addio che si è consumato tra domenica e ieri pomeriggio tra il prato dello stadio Olimpico (Totti) e la sala stampa di Trigoria (Spalletti), racconta molto, forse tutto, di Roma. Ne spiega i fescennini («Speravo de mori’ prima». «Ho vissuto al tempo di Totti»), la toponomastica ribattezzata (Piazza santa Maria Liberatrice, a Testaccio, ora piazza Francesco Totti VIII re di Roma), la sua epica e la sua dannazione. Perché se è vero che il calcio è la metafora più esatta dell’esistenza, è altrettanto vero che la Roma da cui si separano, non a caso insieme, la vita (e le opere) di Francesco Totti da Porta Metronia e l’arte di Luciano Spalletti da Certaldo, con il pallone ha solo in parte a che fare. Mentre molto ne ha, appunto, con questa città. Roma. Senza articolo.
È infatti un esorcismo, prima ancora che un torto alla verità, all’intelligenza e all’evidenza delle cose, pensare che la storia che si è consumata negli ultimi dodici mesi — la malinconia di un genio del calcio costretto alla panchina e l’ostinazione cartesiana di un devoto al principio del primato del “collettivo” nel gioco di squadra — sia faccenda riassumibile nell’antitesi Mozart-Salieri, nel conflitto eterno e incomponibile, capace solo di generare rancore, tra fama imperitura (Totti) e transeunte (Spalletti), tra la ricerca sinfonica della perfezione della forma e l’anarchia necessaria e solista del genio. O che, come nei Duellanti di Ridley Scott (1977, Totti aveva 1 anno), si tratti solo di decidere chi tra i due, Totti e Spalletti, in questa fine di maggio 2017, sia l’ussaro Armand D’Hubert e chi il tenente Gabriel Féraud. Chi dei due, come nella scena che chiude il film, potendo disporre finalmente della vita dell’altro perché con in pugno l’unica delle due pistole ancora carica, decide di lasciarlo in vita dichiarandolo però contestualmente «morto» e dunque condannandolo all’esilio, alla damnatio. E che, per questo, sia faccenda tra due uomini o tra loro e una società di calcio (l’As Roma “americana”) buona per alimentare il nostro infinito bar sport. Che a queste latitudini somiglia tanto all’acquasantiera di san Pietro, dove chiunque, forestiero o indigeno, passa e bagna le dita.
No. Ascoltando la voce di Totti rotta dal pianto domenica pomeriggio («Spegnere la luce non è facile. Ora ho paura e ho bisogno di voi») e quella malinconica di Spalletti ieri a Trigoria («Con Totti diventeremo stretti amici e chissà che una volta non si possa raccontare una storia insieme e che lui stesso non capisca questo fatto dell’esaltazione assoluta che toglie qualsiasi contenuto e che diventa solo un io e si perde di vista il noi») c’è la condanna allo stato di eccezione,emotivo, prima ancora che materiale, di questa città. Quello che la rende irresistibile e identitaria per chi ci è nato o per chi ne è stato adottato. E insopportabile o semplicemente incomprensibile per chi la osserva diffidente da lontano, attratto e insieme respinto. Nell’epica di Francesco Totti, nella sua declinazione sincera e, viva Iddio libera da ogni sovrastruttura, del rapporto con la città di cui è e resterà uno dei figli più celebrati,c’è la maledizione di una bellezza che non riesce davvero mai a farsi definitivamente Grande. Perché costantemente minacciata dal cannibalismo e dall’autofagia,non sempre per eccesso di sentimento (Daniele De Rossi, l’altro figlio di Roma, fulminò un giorno gli amori parassitari di cui la città abbonda, definendoli “papponi”,che a Roma sono i lenoni, i “magnaccia”), che la città riserva alle sue eccellenze. Siano figli riconosciuti del popolo, ovvero, Re, Papi, Presidenti del Consiglio, Sindaci.
C’è la drammatica consapevolezza che, come nel miles gloriosus di Plauto, ogni sogno di grandezza è destinato e regolarmente condannato a fare i conti e sgretolarsi con il principio di realtà. Ma non perché la lezione sia mandata a mente. Ma soltanto perché un nuovo sogno possa rinnovarsi con ancora maggiore speranza e religiosa convinzione. Esattamente come in un derby ebbe a ricordare la curva del tifo laziale. «Noi figli dei Cesari, voi dei Cesaroni». Senza capire che, in quella folgorante e amara intuizione, non c’era affatto una differenza di destino o di ascendenza. Piuttosto — per parafrasare le parole dell’ex Walter Sabatini, che a Roma ha vissuto da direttore sportivo la Roma e la Lazio — solo di karma. Viscerale e terrigno quello romanista. “Collinare”, malinconico e per questo “lucido”, quello laziale, orientato alla consapevolezza che la catastrofe sia sempre dietro l’angolo. Dunque inevitabile. Che è poi l’altra cifra di questa città. Forse Francesco Totti e Luciano Spalletti non lo sanno. O forse sì. Ma in queste calende di maggio, hanno ricordato a tutti Roma cos’è e la sua condanna a una normalità impossibile. Come in un sonetto del Belli, in una pagina di Pasolini o Flaiano. Non è detto sia un male.
Quindi, “Daje”.