IL TEMPO (S. PETRUCCI) - Ma siamo a Roma o sulla luna? Viene da chiederselo, nella città del pallone capovolto, del tifo contro, dell’offesa legalizzata e camuffata per amore o, con maggiore ipocrisia per sacrosanto diritto di critica. La Roma vince alla grande con il Milan, ma la gioia è offuscata dal sacrilegio consumato ai danni del dio del calcio, dalla passerella negata al fenomeno cui addirittura l’ultimo arrivato – Monchi – ha appena ricordato, nel colpevole immobilismo del club, il futuro sancito dal contratto firmato un anno fa. A Totti non è stato concesso l’atteso scampolo di partita dentro allo stadio pronto a osannarlo, dopo averlo coperto di insulti per anni, e allora chissene frega del 4-1 e del secondo posto ritrovato. Niente. Nella città che somiglia ogni giorno di più alle miserie del pallone dell’era-Tavecchio, non si parla più di calcio. E si fa sempre più fatica a esultare per le vittorie, troppo divisi e inveleniti per non prediligere il gusto amaro delle sconfitte, ponte ideale verso il cupio dissolvi di chi pare augurarsi il fallimento, prima che il rilancio di una gestione. Totti contro Spalletti è l’impari sfida che fotografa l’allucinante apoteosi del tafazzismo. Spalletti non può che uscirne sconfitto, come chiunque azzardi il confronto con il campionissimo di sempre, con l’uomo la cui storia è spaventosamente più importante di quella della Roma stessa. Per lui si è sempre più soliti invocare«il rispetto», parola già vaga per definizione (“Riconoscimento di una superiorità morale o sociale manifestato attraverso il proprio atteggiamento o comportamento“) e comunque declinata solo in senso unilaterale: va rispettato il mito Totti, e ci mancherebbe il contrario; molto meno, anzi nulla, chi col mito convive per istituto, dal presidente del club fino all’ormai stravolto allenatore.
Ma chi rispetta la Roma? Chi pensa a salvaguardare una fede, un’idea, una passione che dovrà comunque sopravvivere al dolorosissimo tramonto del suo simbolo più grande? Se Spalletti è definitivamente imploso, vittima di offese sferzanti e di non pochi errori personali, tacciono tutti gli altri protagonisti, rinviando i chiarimenti a fine stagione, quando probabilmente i cocci di oggi saranno diventati polvere. Tace Pallotta, che avrebbe avuto mille occasioni per evitare questo tristissimo epilogo. E tace Totti, cui sarebbe bastata una parola, un tweet o anche un sorriso l’altra notte a San Siro per evitare alla sua Roma lo scempio della divisione. In attesa della voce del presidente, è più facile interpretare altri silenzi. Totti non ha alcuna voglia di smettere, si sente ed è calciatore, non si è mai posto il problema del dopo. Non a caso si è astenuto, per quanto sollecitato, dall’annunciare il suo ritiro. La Roma dal suo canto non sa come impiegarlo da dirigente, come da contratto: non può inchiodarlo al banale ruolo di testimonial, ha serie perplessità sulla sua reale voglia di convivere con un management che Totti sente lontano («Il mio ultimo derby? Lo hanno detto gli altri, mica io») e guidato da un presidente già liquidato dalla moglie Ilary con una sferzata forse più cocente del «piccolo uomo» («Pallotta prima di parlare dovrebbe pensare»). Nel rivoluzionato entourage di Francesco, tra mentori nuovi e vecchi, alla Costanzo («Ppalletti non se po’ pemmette de dà il cottettino a Totti»), c’è chi lo spinge al grande passo: via da Roma con sdegno, destino States, Cina, ovunque possa portarlo il cuore di calciatore che crede di aver fermato l’orologio del tempo. Un epilogo clamoroso. Folle. Ma forse l’unico possibile. Perché è chiaro: non siamo a Roma, ma sulla luna.