Gli occhi chiusi di chi deve vedere: va in scena il teatro degli impuniti

06/05/2017 alle 16:40.
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LA REPUBBLICA (F. MERLO) - E' ormai un teatro degli impuniti, la grande Roma, una sorta di parco-giochi plebeo dove solo i vigili, che sono addestrati appunto per vigilare, non si sono accorti dell’esecuzione in effigie al Colosseo dei quattro calciatori giallorossi, manichini impiccati alle 23,30 di giovedì con il coro del vaffanculo ritmato populo flagitante, a richiesta del pubblico, che infatti filmava, rideva, strabuzzava gli occhi, insomma si godeva la messa in scena.

Né si erano accorti dei natatores a Fontana di Trevi — quattro in venti giorni — questi famosi pizzardoni che, “facce di ciechi e occhi senza sguardo”, non hanno visto i carnifices dei quattro giallorossi. Del resto neppure avevano beccato i foedatores di monumenti alla Barcaccia, al Pantheon e — di nuovo e soprattutto — al Colosseo che, come dice il mitico Gracco nel Gladiatore di Ridley Scott “è il cuore pulsante” di questo giardino delle meraviglie che è il centro di Roma, sempre pieno di polizia comunale e tuttavia sempre incustodito, forse per omertà stracciona o forse per assenteismo da fannulloni con l’aria indaffarata.
E va bene che gli Irriducibili della Lazio hanno intanto assolto anche l’impiccagione in effigie, come fosse goliardia, roba da Rugantino: erano “boiaccia” sì, ma anche bonari. E però la polizia di Stato non è ancora certa che i tifosi giustizieri non abbiano appeso quattro della loro stessa squadra per regolare conti interni. Comunque sia, l’Inquisizione, che a Roma ebbe la sua seconda capitale dopo Palermo, riservava la morte in effigie a chi scappava a nascondersi che in latino si dice lateo, e quindi latitanti, e qualche volta anche ai morti: “cane morto” gridano nella curve al brocco senza onore, al miles ingloriosus. E infatti nella Roma dell’Inquisizione il corpo del traditore veniva addirittura dissepolto per essere impiccato.
E tuttavia si capisce, anche se non è giustificabile, l’accanimento dei tifosi sull’effigie, a simboleggiare l’indefettibilità della giustizia fanatica, perché questo sono gli ultrà: fanatici. Quello che invece non si capisce è il senso di impunità, che di questa Roma è ormai la mala aria, la complicità ambientale con la suburra calcistica e con i turisti che si immergono nella Fontana — almeno quattro bagni in venti giorni e nessun conta gli spettacolari pediluvi e i tantissimi tentativi di arrampicarsi sulle statue per toccare la barba di Oceano.
C’è stato anche l’artista che si è immerso nudo perché, come Achille nello Stige, voleva rubare l’eternità all’acqua “immortale di martiri e di santi” recita l’inno Pontificio. E ci sono le signore che si sono bagnate perché in tutte le guide del mondo c’è scritto che lì Fellini fece immergere la sua Anitona e la fontana non è solo un monumento, ma è anche un simbolo occidentale: è l´acqua della dolce vita, il logo della vacanza italiana, l’arrivederci Roma con la moneta del ritorno. In qualsiasi altra città, nei luoghi così belli e identitari — la Torre Eiffel a Parigi, il Big Ben a Londra — basterebbe, per dirla alla Camilleri, “un fil di fumo” ad allarmare il mondo.
Del degrado di Roma è diventato persino noioso parlare, sembra l’accanimento di un disco rotto, la stanchezza dell’eterno ritorno: i roghi dei bus, i cassonetti di nuovi stracolmi, la puzza esaltata dal caldo precoce, le buche — piccola novità — che ogni tanto squadre di volontari affrontano con pala e catrame, organismi vivi della decomposizione come quegli immigrati che avevano cominciato a pulire le strade in cambio di piccoli aiuti dai commercianti e dai residenti ma ora, anche loro, hanno preso l’aria svogliata degli impiegati romani.
E ogni giorno le radici degli alberi divelgono l’asfalto sulla Cristoforo Colombo, sulla Salaria … e il Comune, forse per difendersi da eventuali cause legali, ha imposto il limite di velocità di trenta all’ora. E intanto i rami si abbattono sulle teste dei passanti e dei motociclisti: incidenti, feriti, persino un morto.
Ebbene, il solo controllo occhiuto in questa Roma, dove i graffiti imbrattano anche i monumenti, non è quello dei poliziotti urbani che pure deambulano come flâneur in divisa, ma è quello dei gabbiani che ai romani un giorno parvero bellissimi perché volavano lontano e in alto, e adesso che mangiano i piccioni, mostrano il loro vero aspetto di soddisfatti topi con le ali. Sono loro che governano il territorio: i gabbiani che si sono impadroniti della saporita spazzatura urbana in una città dove l’accattonaggio umano è forse più selvaggio, e dove il Comune ha deciso di tenere aperte le ville storiche anche la notte.
Sono tornati, reintegrati al loro “posto di lavoro” dal proverbiale Tar del Lazio, i finti gladiatori con la scopa sulla testa, e la gens abusiva si è divisa tra abusivi legalizzati, semilegalizzati e quelli ai quali è stato promessa una legalizzazione. E sono ovviamente comparsi altri questuanti, variazioni dello stesso genere: i più strambi sono quelli che propongono ai turisti foto ricordo con pappagallini con le ali tagliate, come fosse una fauna romanesca.
Come stupirsi alla fine che nel centro ridotto peggio della periferia la polizia non veda mai di nulla e non faccia le multe neppure a quelli che, trovato l’angolino giusto al Colosseo, mingunt ad murum? Né stupisce che ora rivendichino l’esecuzione politicamente corretta i selvaggi del calcio che nelle tante trasmissioni radio — “e che sarà mai?” — stanno dando vita alla figura ossimorica dell’ultrà per bene. Ma sì, è stata solo un’impiccagione giocosa di manichini, un allegro vaffanculo tra amici.