IL MESSAGGERO (M. MOLENDINI) - Totti scende in campo per il Festival e fa il campione di ironia. Non è facile passare dal pallone alle canzoni e allo show, il rischio dell’impaccio è pesante, lo insegnano tanti ospiti sportivi transitati dall’Ariston e non solo dall’Ariston. Francesco, in blu rigorosissimo, quando Conti lo invita a presentare una coppia di cantanti, Nesli e Alice Paba, riesce anche a smontare provvidamente la retorica del testo, col tono della voce e gli ammiccamenti: «Stili diversi» recita il gobbo e aggiunge: «Ma non per questo distanti» e Francesco sottolinea con il sorriso il luogo comune del copione. E’ da tempo che Totti viene chiamato associato al mondo della spettacolo. C’è perfino chi ha prefigurato un suo futuro come attore, magari in qualche cinepanettone pronto a sfruttare la sua gloriosa storia di calciatore.
CARATTERE Ma il suo carattere è troppo disincantato e romano per cadere nella trappola. A Sanremo, però, c’è venuto. Non è la prima volta. Nel 2006 si era seduto in platea all’Ariston per seguire la moglie Ilary Blasi (si erano sposati da pochi mesi) che conduceva quell’edizione (non fortunatissima) con Giorgio Panariello e Victoria Cabello. Undici anni dopo è tornato. Forse lo ha fatto per il rapporto d’amicizia con Maria De Filippi, forse perché gli fa piacere essere celebrato (e di fronte a tanti milioni di spettatori) ora che la sua carriera, in ogni caso, è vicina alla chiusura. E non se ne vergogna. Ma soprattutto non ha nessuna voglia di rinunciare alla sua personalità. Così, quando viene sottoposto all’intervista incrociata, sta al gioco ma senza sbrodolarsi. Comunque simpaticissimo, per nulla impacciato. Proposta indecente come nel film con Redford? «Non accetterei perché sono troppo geloso dei miei valori. Anche se... Devo chiedere a Ilary...». Poi: se vinci lo scudetto devi cantare l’inno della Lazio o della Fiorentina: «Io li canto tutti». E se scoprissi Cristian con la maglia della Lazio nel cassetto? «Se ha fatto questa scelta di vita lo rispetto, ma è impossibile che ce l’abbia». Alla domanda, come ti vedi fra vent’anni? apre alla suspence: «Mi vedo sicuramente in un ruolo importante alla Roma o non alla Roma». E la canzone preferita? «Il piccione di Povia» (si chiamava Vorrei avere il becco). Quando è apparso in scena, dopo essere sceso dalle scale da vero divo, ha subito rimbeccato Conti che lo sollecitava, riferendosi al risultato di Roma-Fiorentina della sera prima, a cadere nella convenzionalità: «Mi aspettavo che arrivassi facendo il quattro con le dita delle mani». E lui, pronto: «Sarebbe stato troppo banale» (lezioncina). E, dopo una pausa, ha aggiunto autoironicamente: «Troppo banale anche perché praticamente non ho giocato. Sarà per un’altra volta». Poi un rvm ha illustrato i suoi 14 gol alla squadra del conduttore-direttore artistico che gli ha chiesto: «Ce l’hai con noi?». E Totti, secco ma con l’aria canzonatoria: «Il colore viola mi piace».
AUTORI Meglio degli autori del Festival, con le sue risposte e la sua sobrietà. E l’ironia innata, molto romana. Vuoi presentare una canzone dei campioni? gli domanda Carlo. E allora presenta Il diario degli errori di Michele Bravi fra i cui autori c’è Cheope (il figlio di Mogol) che Totti pronuncia Sciopé. Ride e chiede: «Perchè, come si chiama?». Forse è ancora divertito dalla battuta di Crozza: «Totti, il nostro calciatore più rappresentativo, ha cominciato a giocare quando c’era ancora Sivori. Sai perché vuole lo stadio? Perché vuole la panchina con alzata assistita»