LA REPUBBLICA (D. MASTROGIACOMO) - Il momento è arrivato. Quello della verità, tra speranza e futuro. La nuova “Chape” si presenta al pubblico, ai suoi tifosi, al Brasile, al mondo. Lo vedi nello sguardo della gente che passeggia lenta e silenziosa. Nell’attesa che si fa pesante, carica di dubbi e insieme piena di certezze. Nei colori del verdâo che illuminano la città. Bandiere, striscioni, gagliardetti scendono dai palazzi, sventolano autobus, avvolgono le auto, coprono le statue degli eroi e persino il campanile. Lo senti nei discorsi, sommessi, pronunciati quasi sotto voce, dei vecchi seduti all’ombra dei platani. Nei visi tirati degli juniores che lo schianto di un aereo rimasto senza benzina ha proiettato sul podio dei titolari.
Li incontriamo in ascensore. Sono in pausa. Smanettano sui cellulari per spezzare la tensione. Si presentano, con un sorriso appena abbozzato. Arturo, Marcelo, Fabricio e poi Tulio de Melo che riconoscono anche i profani. È il più anziano, 33 anni, ha giocato con il Palermo e il Lille. Le mani restano basse, come gli occhi. Imbarazzo e discrezione. «Ci siamo», incalziamo per rompere il silenzio. Il terzetto risponde in coro: «Sì, ci siamo. E siamo pronti». Per vincere? Gli altri due guardano Tulio come si guarda ad un fratello maggiore. Sorridono tutti, ancora una volta. Scendono al piano. Fermiamo le porte qualche secondo. Per tutti parla lui, l’attaccante: «Non possiamo permetterci di mollare. Mai. Non possiamo vacillare. Dobbiamo avere la forza di ravvivare la squadra. Soprattutto noi che siamo arrivati da fuori. Giocare bene e a testa alta, siamo un esempio per i ragazzi. Ce la faremo». Un saluto, il pollice alzato, una foto ricordo, una pacca sulla spalla.
Sono già spariti. Inghiottiti dalla tensione che adesso li stritola e che oggi, per la prima amichevole contro il Palmeiras, di fronte a 20 mila della torcida ammassati sugli spalti del Condá, potrebbe tradirli: incasso alle famiglie delle vittime. Di nuovo avversaria la squadra campione, l’ultima affrontata alla vigilia del disastro, del buio, della morte e delle lacrime.
Sono passati 53 giorni e sembra ieri. 29 novembre. Una serata fredda e piovosa. La ricordano tutti. Non solo qui a Chapecò, 200 mila anime raccolte in una cittadina ordinata e pulita, fatta di contadini e operai, ma in tutto il Brasile. Lo schianto del volo LaMia 2933 sui costoni delle montagne dietro Medellìn, in Colombia. Settantuno morti, tra cui 19 giocatori. Oltre al presidente, all’allenatore, al direttore sportivo, ai giornalisti e ai tecnici tv al seguito. Una strage che ha trovato finora tre colpevoli, un capro espiatorio fuggito dalla Bolivia e una causa che sembra una barzelletta se non fosse un vero crimine. L’areo si è schiantato perché è rimasto senza benzina. Bisognava risparmiare. Il pilota aveva solo rabboccato i serbatoi: il carico sufficiente a percorrere la tratta prevista. Sono bastati il vento contrario e la pioggia battente per restare a secco a 10 mila metri di altezza.
Si sono salvati in sei; tre erano giocatori: il portiere Jakson Follmann, oggi senza più la gamba destra che gli hanno amputato; Alan Ruschel, laterale di riserva che ha rischiato di restare paralizzato e il difensore Hélio Hermito Zampier Neto, chiamato da tutti solo “Neto”, una gamba massacrata, oltre alle costole fratturate e a contusioni varie. I loro numeri di maglia non sono stati riassegnati. «Un miracolo vivente», dicono di Neto vecchi e bambini. «Il nostro eroe», aggiungono i nuovi ragazzi della Chape.
È con i nuovi compagni alla prima partita. Con le stampelle che lo aiutano a camminare e gli ricordano che è ancora qui, tra noi. Solo l’ostinazione di uno dei soccorritori, dopo 8 ore di ricerche, lo ha salvato. Si è risvegliato due giorni dopo. Non si era reso conto di niente. «Allora, come è andata la partita?», ha chiesto a chi gli stava attorno. Gli hanno nascosto la tragedia per due settimane. L’Atletico Naciónal di Medellin, con cui si giocavano la finale della Copa Sudamericana, aveva già rinunciato alla coppa e aveva proposto di assegnarla alla Chapecoense. Solo dopo, Neto ha capito tutto. «Dio mi ha consentito di restare in vita. Vuol dire che ho ancora da fare delle cose qui sulla terra», ha detto alla sua prima apparizione.
C’era due settimane fa, ci sarà anche oggi pomeriggio. La sua è una presenza essenziale. È il collante della squadra. Il nuovo allenatore Vagner Mancini, un passato al Santos, al Cruzeiro, al Botafogo e al Vasco da Gama, lo vuole accanto a sé. Per sondare la nuova rosa. Una decina di juniores sono stati promossi titolari. Sono la base. Tutti i club hanno offerto propri giocatori senza pagare un reais. La Federazione ha lasciato campo libero. È prevalso l’orgoglio. «Ringraziamo ma ce la faremo da soli », ha declinato la dirigenza. Nove presi in prestito, 5 ingaggiati, tra cui Artur, ex Benfica, Roma e Siena. Con il difensore Bruno e l’attaccante Nenen sono la sintesi del nuovo Chapa: freschezza nell’esperienza. Dei dieci che si salvarono perché non partirono per la Colombia, è rimasto solo l’argentino Martinuccio.
La città li guarda con l’orgoglio di sempre. “Per noi”, dicono nei bar e le bancarelle del corso principale, “sono tutto. Noi non abbiamo il mare e la spiaggia. Abbiamo la Chape che ci rende fieri”. Passa il bus della squadra accolto dal frastuono. Urla, grida, trombe, bandiere e magliette agitate in aria. La torcida aspetta. Oggi si scatena. Per onorare i morti e sostenere i nuovi.