ILPOSTICIPO.IT (M. FILACCHIONE) «L’incontro di ritorno fra la Roma e la Juventus farà epoca nella storia del calcio italiano e per il risultato e per l’andamento del gioco e per il tono generale eccitato della giornata». Nella sua consueta mansione di inviato, che alternava a quella di Commissario Unico azzurro, Vittorio Pozzo lanciò la sua profezia dalle colonne della Stampa. Il tempo gli avrebbe dato pienamente ragione: quella che si giocò a Campo Testaccio il 15 marzo 1931 non fu una partita, ma per certi versi “la” partita. Milioni di tifosi romanisti delle epoche successive avrebbero voluto viverla.
La Juventus edizione 1930/31 era la prima versione della squadra che avrebbe dominato il calcio italiano per un quinquennio. Sotto la presidenza di Edoardo Agnelli, figlio del fondatore della Fiat Giovanni, aveva usato la sua potenza economica per togliere talenti a provinciali nobili ma ormai in declino (Rosetta dalla Pro Vercelli, Caligaris dal Casale, Ferrari dall’Alessandria), poi aveva ingaggiato a cifre folli oriundi già celebri come Raimundo Orsi e Renato Cesarini. Ne era nato un complesso poderoso, che già aveva preso la testa della classifica dall’inizio del campionato. Fra le squadre apparse in grado di resistere allo strapotere bianconero c’era proprio la Roma, rafforzata in estate dal presidente Sacerdoti con gli acquisti del fine oriundo Lombardo, del difensore Bodini e soprattutto del costoso “Reuccio” Costantino, una delle ali destre più forti d’Europa. A titolo gratuito era stato preso invece il ventiduenne Masetti, rapidamente rivelatosi portiere di levatura eccezionale. I nuovi si aggiungevano a un telaio già buono, imperniato sulla classe superiore di Bernardini, sulla tempra di Ferraris IV e sulla rara potenza di “Sciabbolone” Volk. Per spiegare cosa avvenne quel 15 marzo nel catino di Testaccio bisogna premettere che la domenica precedente la Roma era fragorosamente caduta a Napoli (3-0), scivolando a cinque punti dalla vetta. L’incontro con la Juve era verosimilmente l’ultimo appello per sperare ancora nello scudetto. Il tecnico, l’inglese Burgess, uno che beveva molto ma “vedeva” il calcio, apportò un correttivo: Attilio Ferraris IV, fin lì impiegato da terzino, veniva sostituito nel ruolo dal rude De Micheli e spostato a mediano destro. Nel Metodo, il modulo di gioco in voga all’epoca, i due mediani controllavano soprattutto le ali avversarie. In sostanza, Ferraris doveva marcare l’avversario più temibile, il raffinato ed imprendibile Raimundo “Mumo” Orsi. I due erano compagni di Nazionale, ma per la vis agonistica di Attilio, come vedremo, il fatto era irrilevante.
Quel pomeriggio le tribune di Campo Testaccio sono muraglie umane: dense, compatte, impressionanti per il rombo sordo che sprigionano. In campo, le due squadre si fanno fotografare a ranghi uniti. Sorridenti, l’uno abbracciato all’altro, sembrano un gruppo di amici. In realtà sta per cominciare una battaglia, con una differenza sostanziale: la Juve vuole semplicemente vincere una partita importante, i giallorossi si preparano a giocare come se, scrisse poi Vittorio Pozzo, «dall’esito della partita avesse dovuto dipendere la loro vita». La resistenza bianconera dura solo sei minuti, poi la Roma passa in vantaggio con Lombardo, rapido a sfruttare un varco mentre i difensori avversari si stringono attorno allo spauracchio Volk. Approccio sbagliato, diremmo oggi, quello degli juventini, che continuano a tenere palla, cercare la finezza individuale, mentre i giallorossi, baciati da grazia agonistica e fisica, li azzerano senza pietà. Il gioco in breve tracima da energico a cattivo e gli scontri si susseguono, così come i capannelli fra giocatori imbestialiti. Bernardini da una parte e il portiere bianconero Combi dall’altra cercano di mettere pace. Una delle chiavi del match è proprio la marcatura di Ferraris IV su Orsi: aspra, assidua, spesso fallosa. E quando il povero Mumo tenta un numero in pallonetto, Attilio prima lo ferma in rovesciata, poi lo minaccia: «Si ce riprovi…». Si arriva all’intervallo sull’1-0 ma il peggio per la Juve deve arrivare. Nella ripresa è una mattanza: dopo cinque minuti, ennesimo intervento di Ferraris su Orsi, lo juventino rimane a terra, i suoi compagni invocano inutilmente il calcio di punizione mentre Costantino vola sulla destra, centra e imbecca Volk per il 2-0. Per il bollente Cesarini, oriundo bizzarro ma gran giocatore, è troppo: dopo qualche minuto si attacca con Ferraris IV. L’arbitro, il quotato Carraro, decide per la doppia espulsione. In dieci contro dieci la Roma trova ancora più spazio. Al 60’ arriva il 3-0 con Bernardini, su rigore concesso per chiaro fallo di mano del mediano Vollono. È la pietra tombale sulle speranze bianconere, mentre l’urlo di Testaccio echeggia fino ai contrafforti del Gianicolo.
Fra i più in bambola tra gli juventini c’è il capitano, Umberto Caligaris, anche lui uomo di temperamento. Al 78’, su un suo retropassaggio sbagliato a Combi si inserisce Fasanelli per il 4-0. Al buon “Caliga” a quel punto saltano definitivamente i nervi: espulso anche lui e Juve in nove. Quasi surreale il finale: chi gioca ancora, chi si impegna in scaramucce e discussioni in campo. Nella confusione, Bernardini fa in tempo a suggellare uno storico 5-0. Cosa accadde poi? La Juve tornò subito a marciare, la Roma continuò a inseguire e a sperare fino al penultimo turno di campionato. Da quel momento, nessuno avrebbe impedito ai bianconeri, via via rafforzati, di vincere il campionato per cinque anni di seguito. Ma nella storia giallorossa il significato di quel rovente pomeriggio di marzo resta immenso. Rappresenta il punto più alto dell’epica di Testaccio, segnata da un viscerale legame tra la squadra e il suo pubblico. Fu proprio Caligaris, negli spogliatoi, a dichiarare: «Il pubblico è stato il dodicesimo uomo della Roma». Gli undici di quel giorno vivono ancora nella memoria dei tifosi di oggi soprattutto per merito della “Canzona di Testaccio”, scritta nel 1931 in onore di una squadra che un Masetti ormai anziano definì la più forte della storia giallorossa. Il 5-0 può essere inoltre ritenuto la prima pietra di una delle rivalità classiche del nostro calcio, un po’ assopita nel dopoguerra ma rinata vigorosissima negli anni Ottanta. L’eco di quella impresa, infine, fu talmente ampia da ispirare una pellicola, uscita nelle sale un anno dopo: “Cinque a zero”, di Mario Bonnard. Una commedia a lieto fine a cui parteciparono in veste di attori i protagonisti della vera sfida.