IL TEMPO (D. DI SANTO) - Si dice che i danesi siano un po’ gli italiani della Scandinavia. Nordici sì, ma fantasiosi e scostanti, irruenti e forse un po’ matti. E un vero diamante pazzo era Helge Christian Bronée, talento purissimo che ha illuminato l’attacco della Roma tra il 1952 e il 1954. Due stagioni - 51 presenze e 21 gol - caratterizzate, come tutta la carriera del mancino classe ’22, da giocate geniali e istrionismi esasperanti, da geometrie da artista a sfuriate paurose. Altro che Cassano e Balotelli.
La travagliata permanenza di Bronée nella capitale è legata a un Roma-Inter in bianco e nero, giocato il 25 ottobre del 1953 in uno stadio Olimpico nuovo fiammante, 7' giornata del campiknato di Serie A. I giallorossi di Mario Varglien al 25’ vanno in vantaggio con Carlo Galli. La capolista è schiacciata nella sua metà campo, Bronée tesse la trama del gioco ma la Roma non riesce a «uccidere» la partita. I nerazzurri, che vinceranno lo scudetto, agguantano il pari al 62’ con Benito Lorenzi, complice una svista del portiere giallorosso Giuseppe Moro. Finisce 1-1, un’occasione sprecata per la Roma che perde il treno delle prime.
Al rientro negli spogliatori scatta il parapiglia. Il bersaglio della rivolta è proprio Helge al quale fino ad allora era stato perdonato tutto, dagli scherzi da prete in ritiro alle «eclissi» dal campo nelle giornate no. Il più accanito è Arcadio Venturi che prende di petto la mezz’ala che, per non smentire la sua reputazione, gli tira uno scarpino. La storia campeggia per settimane sulle cronache calcistiche dell’epoca, soprattutto perché quella scarpa scagliata negli spogliatoi manca di un pelo Venturi e centra in pieno Campilli, capo della commissione tecnica della Roma, figlio di un ministro. Non solo, il danese inveisce contro il dirigente, e al club non resta che deferirlo alla Lega - allora era prassi - e sospenderlo a tempo indeterminato. Leggenda vuole che il nostro, offesissimo, rifiutò di scusarsi per poi autoesiliarsi tra le riserve fino al trasferimento alla Juve, al termine della stagione. In realtà Bronée a scusarsi da Campilli ci andò, scortato da Pietro Crostarosa, uno dei fondatori della Roman. Venne reintegrato e quell’anno saltò solo una gara.
Ma perché questo accanimento improvviso? Il fatto è che Helge nella capitale era arrivato sull’onda dell’entusiasmo della promozione in A, acquisto di punta con Pandolfini e Renosto. Scoperto a Nancy dal principe Raimondo Lanza di Trabia, che lo volle nel suo Palermo, Bronée aveva già fatto impazzire il tecnico dei rosanero Gipo Viani, inventore del modulo «vianema» e teorico del catenaccio. Proprio in una partita dove il Palermo era barricato in difesa per portare a casa un pareggio, il danese, isolato in attacco, pensò bene di tornare verso la sua porta, prendere il pallone e segnare volontariamente un clamoroso autogol per punire il tecnico difensivista. Qui siamo nel campo della leggenda, ma è indicativo il fatto che Viani, in seguito tecnico della Roma, fuggì a gambe levate dal club giallorosso che aveva portato in A all’annuncio dell’acquisto di Bronée. In tutti i miti c’è un fondo di verità.