LA REPUBBLICA (E. SISTI) - Tornano i tre punti, ma solo quelli. Sotto la cenere giallorossa, grigia come il gioco, il vulcano crepita e minaccia. A Trigoria rimane tutto in bilico, per qualcuno lo Spezia è stato un punto di non ritorno, è lì che è finita un’epoca. Il 2-0 al Genoa serve a poco, più che la medicina sembra l’ultimo sintomo della malattia, un vincere triste, da astenici. Nell’aria c’è sempre quell’insopportabile odore di lacrime, impotenza e rabbia, c’è chi vorrebbe sbaraccare, c’è chi dice aspettiamo. «Non tocca a me parlare del mio futuro», spiega Garcia, sospeso nel limbo di chi non ha più i numeri per ostentare autorevolezza, né (a quanto pare) un sostegno presidenziale. La sua panchina è una zattera, basta una pedata per mandarla alla deriva mentre non potrà bastare l’affettuoso abbraccio (programmato) dei suoi giocatori dopo la rete di Florenzi per rinsaldarla alla riva. Il ds Sabatini si infila il cinturone e da sotto il cappellaccio, col sigaro in bocca, partorisce una frase alla Tarantino: «Voi volete veder scorrere il sangue, ma se il sangue scorrerà non sarà quello del nostro allenatore». Tradotto dal western: «Se va via lui mi dimetto ».
Spalletti? Roma a pezzi, sgangherata e senza gambe in campo, confusa sulle scrivanie. Roma che ha ripreso a vincere dopo quarantadue giorni di astinenza nel pomeriggio in cui è andata in scena una delle sue versioni più desolanti, un enigmatico miscuglio di paura e frenesia, molle e isterica al tempo stesso, un velenoso pasticcio di inadeguatezza, rassegnazione e individualismi senza sbocco e senza gioia. Rimane agganciata (da ultima) al treno di testa ma ormai l’85% dei suoi giocatori non si regge più in piedi. Torna a segnare dopo i lunghi e allarmanti silenzi dell’attacco proprio nel giorno in cui Dzeko, con i nervi a pezzi, si fa espellere per la prima volta in carriera perché dice due volte “vaffa” in inglese all’arbitro Gervasoni.
La Roma e i suoi rovesci. Vince contro una squadra messa peggio di lei ma rischia il pari, si emoziona per il primo gol in serie A di Sadiq (‘97) ma non riesce a frenare gli inutili eccessi di qualche suo esponente in crisi che la porteranno a giocare contro il Chievo, in gennaio, senza Dzeko, Pjanic e Nainggolan squalificati. Qualcosa non funziona più, qualcosa non funzionerà mai, qualcosa non ha mai funzionato (Florenzi terzino). «Abbiamo segnato quando il pubblico ha cominciato a sostenerci», ha voluto precisare Florenzi, autore del vantaggio alla fine del primo tempo, anche lui stordito, faccio l’ala, il terzino, copro, lancio, mi lancio, e che diamine. L’ambiente è stremato, inacidito, anche le sciarpe sembrano posticce. I meglio informati giurano che la foresta pietrificata che ha accolto ieri due squadre in pessime condizioni di salute (4 mila paganti), un giorno lontano era un luogo in cui si sorrideva, ci si abbracciava, ci si sentiva vivi. Lo chiamavano tifo. Persino quando c’è stato l’abbraccio con Garcia sono arrivati i fischi. E’ come se un’intera città avesse smesso di pensare al calcio per smettere di soffrire o di indignarsi. Uno stadio deserto è smarrimento sociale e societario. La Roma è lì che svolazza sui seggiolini vuoti, appesantita dai limiti, sperando di trovare un po’ di cibo e magari un’idea per non morire così, di sogni infranti, come sempre.