IL MESSAGGERO (A. ANGELONI) - Luis Enrique, prima di fare l’allenatore, almeno in Italia, era ricordato per aver preso una gomitata (bella corpulenta) da Mauro Tassotti in un Italia-Spagna di Usa ’94; ora che ha vinto un po’ tutto guidando il Barcellona, viene menzionato per essere passato da Roma, da tecnico, e di aver fatto la figura dell’inadeguato e ovviamente succede che da queste parti si scopre che non abbiamo capito niente, che non abbiamo saputo apprezzare.
MEGLIO OKAKA Certo, il settimo posto conquistato con la Roma (14 sconfitte, di cui i due derby), l’eliminazione dal preliminare di Europa League con lo Slovan Bratislava, di sicuro non hanno aiutato a farci capire qualcosa di più. Nel 2011, quando è arrivato a Roma, è stato accolto e appoggiato da tutti, addirittura aleggiava all’Olimpico uno striscione «mai schiavi del risultato», fotografia della sua mentalità, immediatamente coinvolgente. Luis aveva in mano una Roma non esaltante, di sicuro non all’altezza del Barcellona che poi gli ha regalato il Triplete (Liga, coppa nazionale e Champions): la squadra provava a giocare un calcio aperto, ma spesso l’unica cosa che non si riusciva a chiudere era la porta di Stekelenburg.
Tiri verso la porta avversaria arrivavano come la pioggia in questo periodo, quelli verso la propria erano all’ordine del minuto. Poche vittorie, tante sconfitte, un gioco che non decollava. Unj disastro. Ma noi non capivamo niente. Lo stadio si è stancato di lui solo alla fine della stagione, chiedendone a gran voce l’allontanamento. Lui, stressatissimo, non ha retto le pressioni e molto dignitosamente, e chiedendo scusa, ha fatto le valige e se n’è andato dopo aver preferito Okaka a Totti, dopo aver schierato Borriello esterno e dopo aver rinunciato a De Rossi perché arrivato in ritardo a una riunione tecnica. Scelte tecniche (discutibili) e principi solidi (rispettabili), lo stesso De Rossi a distanza di tempo ha ammesso che Luis «è stato uno dei migliori allenatori della sua carriera». Quello era il Luis di Roma, più decontestualizzato che scarso. Al Barcellona, la sua casa, è riuscito a vincere, parola che da queste parti abbiamo smesso di pronunciare o quantomeno non siamo abituati a pronunciarla.
PERCORSO E CERBOTTANE Vai a capire quanto abbia influito la sua mano a Barcellona, di sicuro un conto è attaccare gli spazi con Jordi Alba o Neymar o Messi, un conto è con José Angel, Heinze o Rosi. Troppi meriti ora, forse troppi demeriti per il suo percorso romano. Roma gli è rimasta dentro e ancora oggi ne parla sorridendo e, alla vigilia dell’amichevole di stasera, le augura di «vincere lo scudetto». «Io sono asturiano, sono un combattente nato» amava ripetere Luis durante il suo soggiorno romano. Ha combattuto, ha provato a imporsi, si è stressato forse perché l’idea di Baldini di puntare su di lui era troppo bella e al tempo stesso troppo grande. E’ come andare in guerra con la cerbottana o con il nucleare. O confondere il percorso con il traguardo. Qui a Roma di percorso ne hanno sempre fatto tanto, si sente il bisogno di tagliare qualche traguardo. Luis non c’è, ma Trigoria è rimasta in mezzo al percorso ed è piena di cerbottane. E la colpa, di questo, non è sua.