GASPORT (D. STOPPINI) - Un anno e mezzo fa tornò a casa nottetempo, dopo aver tramortito San Siro. Le chiavi nella giacca, la porta che si apre, la luce e una sorpresa. Che sorpresa: sul tavolo Cristian e Chanel gli avevano lasciato i disegni dei due gol, sotto la scritta «bravo papà». Francesco Totti e l’Inter è un romanzo lungo 47 capitoli. Il più lungo, quasi infinito, pieno di colpi di scena, cambi di ruolo, vittima e carnefice, lacrime e gioie, risate e dolori. Storia di blitz mancati e riusciti, di scudetti sognati, vinti e persi, di Coppe alzate e di rigori. Storia di amori platonici, come quello di Massimo Moratti, che poco tempo fa rivelò di aver chiesto a Franco Sensi, ai tempi della trattativa Chivu: «Hai per caso intenzione di vendere Totti? Se sì, sarò in prima fila». È rimasto in seconda, perché la business class di Totti è sempre stata la Roma.
PURE CONTRO GLI SCETTICI - Business è anche la Champions League, signori. Vallo a dire al numero 10, che due-conti-due se li è fatti. E siccome il contratto recita giugno 2016, siccome pure il rinnovo è operazione per ora rimasta nell’aria con un accordo verbale, il capitano ha tutta la voglia di garantirsi quella che potrebbe essere la sua ultima partecipazione europea alla Champions. E il tempo stringe, sette partite sono poche per concedersi strani esperimenti. Allora riecco Totti, 48a volta contro l’Inter. L’ennesima a San Siro, dove ha segnato in carriera 14 reti equamente divise: 7 all’Inter, 7 al Milan. L’ennesima pure contro un amico, Roberto Mancini, uno che di Totti poteva anticipare il percorso e invece ha scelto un’altra strada: «Fossi rimasto alla Samp, avrei fatto come Francesco a Roma — ricorda il Mancio —. È il giocatore in cui mi sono rivisto, più di ogni altro». Presto, magari, torneranno a sfidarsi pure su un campo di paddle, altra passione in comune tra i due. Nell’attesa, terreno sempre verde, ma un po’ più largo. San Siro, 10 anni dopo «uno dei miei gol più belli», cucchiaio da fuori area dopo slalom di metà campo. Di quella Roma lì sono rimasti solo Totti e De Rossi. Limite e riferimento di una squadra che si trova a sgobbare per il secondo posto, con la paura fottuta — per usare un termine pallottiano — di non arrivare neppure terza. Nel cuore di una città in cui aumenta giorno dopo giorno il partito degli scettici, di quelli che vorrebbe vedere Totti sempre meno in campo, sempre più part-time. Di quelli che, in definitiva, chiedono a Pallotta di comportarsi come Agnelli fece con Del Piero. Ma poi c’è il campo. C’è una squadra che non segna neppure con le mani. C’è un attaccante — Doumbia — acquistato a gennaio e che a fine aprile ancora deve centrare per la prima volta lo specchio della porta avversaria. Ce n’è un altro — Iturbe — che ha avuto una crisi di nervi, per i fischi che riceve a ogni tocco di palla. E un terzo — Gervinho — che torna stasera in campo a caccia del terzo (sì, terzo) gol in campionato, un girone intero dopo il secondo. E allora anche Garcia si è fatto due-conti-due. Arrivando a una decisione del genere: meglio un po’ di corsa in meno, ma in campo almeno uno in grado di tirare in porta. Come quella sera a San Siro di un anno e mezzo fa, quando si alzarono in piedi per applaudirlo anche i tifosi dell’Inter. A Roma, invece, giovani disegnatori erano già al lavoro.