LA REPUBBLICA (A. CAROTENUTO) - Ingegnere va così. Mormorio intorno al 20’ del primo tempo perché lo 0-0 già pare un’offesa. Fischiatina sparpagliata ma più convinta all’intervallo. Insofferenza sfacciata a un quarto d’ora dalla fine. Chiusura con contestazione, venite sotto la curva, amiamo solo la maglia, e non fatevi vedere in giro. È il calore della folla. Convinti che siano i risultati del campo a provocare l’insofferenza del tifoso, abbiamo smesso di far caso alla verità. Il piano va ribaltato. È l’intolleranza del tifoso a mettere sempre più spesso il piombo nelle gambe della sua squadra. Che smette di correre, smette di crederci, smette di vincere. Eravamo rimasti alla tribù di Morris, al branco che allo stadio si riconosce e si riaggrega dentro un senso d’appartenenza a un’identità. Ma se all’improvviso da questo nucleo sparisce la squadra, che succede al famoso rito collettivo?
Zeman se lo è domandato e si è dato una risposta: «Quando succedono certe cose, è normale che i ragazzi non si sentano tranquilli e si presentino così in campo». “Certe cose” sono i faccia a faccia con gli ultrà, i sermoni, il foot-bullismo. Diagnosi: «Abbiamo l’ambiente contro». L’ambiente è parola totem nel mondo del calcio più o meno alla stregua di “spogliatoio”. L’ambiente sbuffa, l’ambiente bolle, l’ambiente esplode. Mica soltanto a Cagliari, dove il biglietto di viaggio per la B pare ormai timbrato.
Anche Roma giallorossa vive un subbuglio analogo. La stessa squadra che a gennaio aveva un punto di distacco dalla Juve, all’Olimpico ha vinto solo una partita delle ultime nove. Gioca in casa e le manca l’ossigeno. È finita stritolata dalle pretese. Eppure, un piazzamento migliore di quello d’oggi, nella sua storia la Roma l’ha raggiunto tre volte. Tre. Già Orazio non si dava pace: nessuno vive contento della sua sorte. E Orazio non conosceva i tifosi. Lo psicologo David McClelland, il papà della teoria dei bisogni, cominciò a indagare sul rapporto che esiste fra i risultati di un team di lavoro e l’ambiente in cui opera, dove per ambiente intendeva un insieme di variabili culturali che influenzano in modo diretto le motivazioni. Giunse alla convinzione che l’ambiente ci mette del suo per il 30%. Per capirci: il 30% dei punti della Juve sono 22.
In Inghilterra, un gruppo di docenti delle università di Lincoln, Loughborough e Aberystwyth ha esteso lo studio dalle motivazioni di un ambiente alle motivazioni di un’atmosfera, misurando gli effetti negativi di un «clima da scenata» (pressione, tensione, ansia, stress, preoccupazione), definito in un passaggio della ricerca «a win-at-all-costs climate». Clima da vittoria a tutti i costi. Il veleno. Nei mesi scorsi il morbo è passato da Bergamo (Colantuono: «Non so cosa si aspettino i tifosi»). Il Genoa è stato contestato (Gasperini: «Cosa volete dalla squadra? Che non sbagli mai?»). Non scherzano neppure a Napoli, ultimo scudetto 25 anni fa, dove due Coppe vinte in sei mesi e una (quasi) semifinale europea generano anidride carbonica. Gasperini lo chiamò felicemente «un clima di indisponibilità».
Winat- all-costs. Non ha imitatori la lezione di Dortmund: “Wenn du fällst bin ich bei dir”. Se tu cadi io resto accanto a te, fu lo striscione apparso nella curva del Borussia, nei giorni in cui era ultimo. I tifosi incontrarono poi i calciatori: «Volevamo solo dirvi che ci aspettavamo di più». E tornarono a casa. Forse c’è troppa bellezza nel calcio in tv: Messi su un canale, il Bayern su un altro. È tanto vicina da sembrare ordinaria. Andiamo allo stadio e la esigiamo dai nostri.
Nel suo libro più recente (“Le undici virtù del leader”, Isbn), Jorge Valdano sostiene che i tifosi sono insaziabili, o meglio «insaziabile è la speranza». Figurarsi le aspettative, spesso incontrollabili. Scrive: «La fiducia scioglie le gambe, amplia i polmoni. Solo la fiducia (quella che si possiede per natura e quella che si assorbe dall’ambiente) porta il talento al limite massimo. E a volte un po’ più in là». Ma la fiducia richiede pazienza, e la pazienza non ha il fascino della speranza.